VIM
- Luigi Perissinotto
- Jan 25, 2024
- 5 min read
Updated: Feb 12, 2024
25 Gennaio 2024
Passava, sghembo, lungo la nostra strada, un carretto a due ruote e mezza bici, con due bidoni in lamiera bernoccoluta e arrugginita.
Passava davanti casa senza preavviso e senza scadenza e solo quando i rifiuti iniziavano a puzzare. L'uomo che sui pedali spingeva il trabiccolo raccoglieva la poca immondizia accatastata e svuotava malconci bidoncini. Poi continuava, lento, lungo via Argine verso la piazza del paese. Raggiunto il negozio del ciabattino girava a sinistra e risaliva la piccola rampa verso il "tunnel".
Incredibilmente un “Tunnel”! sinonimo di galleria. In paese è conosciuto con questo immaginifico e spropositato termine, ma in realtà è "solo" un buco, una fenditura di pochi metri in un terrapieno. Senz'altro singolare, un evidente azzardo idraulico in caso di piene del fiume, probabilmente unico in Italia. Un simbolo, orgoglio e preoccupazione del nostro paese.

Era il passaggio, una specie di blanda iniziazione che ci accompagnava verso un territorio primitivo e verso la nostra interminabile giovinezza. Ma anche, molto meno prosaicamente, un varco che consente il transito, allora come ora, di mezzi, grandi e piccoli, dal territorio civilizzato alla regione fluviale, alla “grava” della Piave. A quel tempo un miscuglio di terre selvagge e abbandonate percorse da tratturi affollati di gente stranamente operosa.
Appena oltre il tunnel si allargava, lungo la mirabile ansa semicircolare del fiume, il più grande porto fluviale del Basso Piave. Un cantiere all'aperto e in perenne fermento, avvolto in nuvole di polvere tra rumori assordanti, di uomini, di animali e di macchine.
Entravano ed uscivano dal tunnel autocarri carichi di ghiaia e sabbia mentre, lungo la sponda del fiume, due grosse gru rotanti a traliccio, i "macachi", svuotavano i cassoni dei "burci" provenienti dalla laguna veneta creando, sulla banchina del porto e sugli ampi spazi retrostanti, alte ed instabili montagne di materiale inerte.
Vi era anche un precario binario con un paio di vagoncini in ferro per il trasporto delle ghiaie più grosse dal molo al frantoio, marchingegno infernale generatore di fracasso, polvere e fatica. Di questa "macchina” è rimasto solo lo scheletro in calcestruzzo, i trituratori di ghiaia, la mitica creatura meccanica che mi svegliava al mattino, quando ancora il sole non era sorto, si perde nella nebbia dei miei ricordi più vaghi e remoti.

Al di là del tunnel, a destra spiccava, di colore arancione sbrecciato, anche il macello comunale. Altre grida altri uomini altri odori altre storie.
E sotto il ciglio dell'argine, attraverso il tunnel, passava quell'uomo e la sua mezza bici con il carretto di bidoni traboccanti di spazzatura. In genere lattine sventrate, i primi recipienti in plastica, giornali e sozzura varia e indeterminata.
Costui, un semplice e tranquillo compaesano nonché, ai miei occhi, un magrissimo e altissimo predatore di oggetti pregiati, passato il tunnel girava a sinistra in leggerissima discesa in direzione del frantoio. Per un centinaio di metri seguiva uno stradone rettilineo lungo il margine della verde muraglia, cosparso di profonde buche e sassi e fango, oltrepassava due alti e frondosi pioppi, la casetta dei barcaioli per arrivare, infine, sulla radura incolta, immonda e fumante a valle della prepotente macina pietre. La discarica dei rifiuti del paese: un girone dell'inferno, con fuochi perenni, fumi nauseabondi, ratti, cani e teppisti randagi e alcuni uomini abbandonati. La nostra inesauribile miniera.
L'uomo scheletrico del carretto svuotava i bidoni senza degnarci di uno sguardo, ripartiva piano piano mentre altri uomini si avvicinavano al nostro giacimento a cielo aperto. Due strambi personaggi. Sempre gli stessi individui, defilati e mai in coppia. Nostri aiutanti e nostri concorrenti. Fulvio e Orazio.
Fulvio silenzioso e caparbio spesso iracondo, Orazio elegante, quasi mistico e dalle incomprensibili iperboli oratorie. Nostri alleati, tra le disordinate onde di una stagnante distesa di rifiuti, quando si trattava di carta e cartone, nostri terribili antagonisti per quanto riguardava ferro e metalli vari. Tutti comunque senza distinzione, stanziali soldati o erranti vagabondi, immersi come sudici porci tra fumi e miasmi in attesa di veder emergere dalle nauseabonde viscere gli oggetti preziosi, per noi, né casuali né banali.
Esisteva infatti, nella nostra primitiva raccolta differenziata, un preciso metodo di ricerca ed una altrettanto precisa classificazione dei rinvenimenti.

Il primo passo era l'innesco di alcuni focolai dispersi: basilari per marcare il territorio, per ridurre la massa dei rifiuti da selezionare e per avere, sempre disponibile, la materia ardente per far fronte agli attacchi del nemico. Le zone laterali del campo di raccolta, facilmente accessibili erano filoni immediatamente esauriti e pertanto lasciate ai cercatori occasionali, mentre l'area centrale era la più ambita e di conseguenza tenacemente presidiata.
La classificazione dei materiali pregiati era molto precisa e rigida, ordinata sulla base di stringenti indicatori di rarità e di possibile ricompensa o, meglio ancora, di prestigio personale e impavida reputazione. I migliori cercatori erano anche i gregari più fidati del capo e da costui protetti.
Tra i cumuli del campo iniziava quindi una sorta di aratura e metodico spianamento. Venivano usati piedi mal calzati, mani spesso sanguinanti, bastoni e spranghe varie ed improvvisate. Ogni tanto affioravano le agognate pepite.
Carta e cartone stavano all’ultimo posto. Erano i materiali prediletti da Fulvio e Orazio, escluse alcune riviste che noi predatori non potevamo ignorare. Anche queste rigidamente classificate in base alle caratteristiche esteriori, in particolare patinatura e ruvidezza. Bolero e Grand Hotel stavano sul fondo della lista mentre i quotidiani, in prevalenza Tuttosport e Avvenire in testa. Il Gazzettino non era tra i nostri preferiti per la scarsa qualità dell’inchiostro di stampa che lasciava aloni e segni nerastri sulla pelle. Ovviamente l'uso, apprezzato anche in famiglia, era molto personale, avveniva in ambiente parzialmente riservato composto da un monolocale privo di qualsivoglia arredo se non di un gancio in ferro perennemente sguarnito e solitario.
Poi c’erano le bottiglie in sottile plastica prive di etichetta, di colore giallino o verdino, della varechina. Materiale indispensabile per le torce e per rendere micidiali le punte delle lance da scagliare contro le bande rivali. In genere i temibili "Kamemoti".
Quindi, in seconda posizione, le eccellenti lattine color blu dell'olio Topazio. Quelle da litro, ma in particolare le rarissime da cinque. Fondamentale era rintracciare i recipienti perfetti, privi di fessurazioni ammaccature o deformazioni. Solo le migliori latte potevano essere conservate ed utilizzate per le bombe al carburo, di cui un giorno racconterò.

Primo posto, apice irraggiungibile nel mare nostrum dell'immondezzaio, l'immarcescibile VIM! Il più ambito bottino nella spietata prateria degli avanzi di quella irrilevante e misera civiltà. L'ambito contenitore in cartone della mitica polvere bianca abrasiva, cilindrico e di colore blu, come l'olio Topazio, spuntava ogni tanto accartocciato, bruciacchiato o spappolato tra i liquidi di putrefazione. Le condizioni del barattolo non erano un problema, il nostro interesse si concentrava unicamente sui due tappi alle opposte estremità del cilindro. Quello integro del fondo e quello con tre o cinque buchi del coperchio. Entrambi in prezioso alluminio. La raccolta era lenta e faticosa, non sempre favorevole, ma ogni giovedì riservava alcune piccole soddisfazioni.
Al giovedì, annunciato dallo stentoreo proclama "strasse, ossi e ferovecio" passava il trabiccolo a motore per la raccolta del ferro vecchio. Stracci e ossa (quest’ultime utilizzate per produrre il sapone) erano ormai ricordi del passato e mantenuti nelle grida altisonanti solo per consuetudine e pittoresca tiritera.

La vendita dei coperchietti fruttava alcune monete e raramente un bel pezzo da cinquecento lire in argento. Tutto il ricavato veniva immediatamente consegnato al capo e dal capo immediatamente trasformato in sigarette Nazionali senza filtro!
Un paio di volte all'anno, con nostro disappunto e palese frustrazione, la discarica veniva ripulita. Si trattava di una operazione meccanica molto semplice. L'ubicazione del campo dei rifiuti, in prossimità della Piave, era strategica e sicuramente frutto di una “mirabile” intuizione.
Un giallo e rumoroso caterpillar, con pochi passaggi, spingeva l'ammasso sudicio e puzzolente direttamente nelle verdi acque del fiume. Qualcosa restava a galla e si allontanava trasportata dalla corrente, altre schifezze affondavano tra turbini di colore marroncino.
Poi, quando il grosso trattore se ne andava, arrivavano i pescatori. (segue "Guerra e pace")

Bei racconti Gigi.
Che racconti avvincenti! Sembrano ambientati in un'epoca remota.. Invece sono così recenti 😅 Grazie Gigi!
Anna
Ciao
Bravo Gigi! Racconto bellissimo, ricco di ricordi e riferimenti propri, anche della mia infanzia. Attendo il seguito! Ciao, Antonella.
Leggo con piacere questi ricordi. Bravo Gigi, ciao Oriella.