DUE ROBERTO
- Luigi Perissinotto
- 5 days ago
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10 Maggio 2025
In via Argine i giorni di pace si alternavano ad altri più frenetici, capitavano poi, e non di rado, giornate infuocate che, sovente, sfociavano in una guerriglia poco urbana.
Ogni nuova alba aveva in serbo una cospicua dose di benefica fatalità, ogni giorno aveva la propria dignità ed una equivalente porzione di ostinata bassezza, la giornata della banda era sempre pienamente vissuta, ricordata e spesso decantata quasi si trattasse di un evento epico ed indimenticabile.
In verità erano solo bravate di giovincelli allo stato brado, piccoli incendi alimentati da gambe veloci e teste acerbe. E facce stralunate e piedi grossi e mani incrostate di terrena sporcizia. Bastava una scintilla impazzita, un gesto scoordinato, una parola fuori posto per scatenare una sequela via via sempre più intensa di stupidaggini. Alcune innocue altre da "fuoriditesta".

Gli artifici eravamo sempre noi, piccoli vandali di cortile, soldatini dell'argine, tutti uguali, senza nome e senza medaglia. Tranne il capo banda. E qualche suo accolito. E a giorni alterni, senza criterio, il più casinista di turno.
Quel giorno, anzi la sera di quel giorno, la medaglia venne divisa equamente tra due inconsapevoli e stolti funamboli. Mio fratello Roberto e l'altro, Roberto, anche lui. Entrambi ovviamente minorenni, entrambi coetanei, entrambi scevri da ogni ragionevole cautela. Votati quel giorno alla conquista delle nuvole. Al raggiungimento dell'apice più manifesto, senza ideali di purezza, senza filosofie o doti genetiche. Semplicemente comandati dall'istinto primordiale, come animali nella giungla, come primati attratti dal punto più elevato. Da dove sbeffeggiare gli altri, quelli più in basso.
Un "luogo" o meglio ancora un simbolo, facile e visibile da ogni angolo del paese, da tutti i punti cardinali, da ogni persona, anche da luoghi relativamente lontani, oltre il Piave e al di là del fiume e oltre gli alberi, fino a dove l'orizzonte incontra una lieve ed azzurrina foschia.

Perché il campanile del paese, la sua guglia affusolata a bucare il cielo, era il nostro Everest la nostra Torre Eiffel e nessuno era in grado di trovare od immaginare sommità più elevata.


Un pinnacolo nella pianura alto e svettante oltre gli ottanta metri. Per noi addirittura oltre i cento, ma ciò che davvero contava: più alto di tutti i campanili dei paesi vicini. Un vanto ancor oggi tangibile tra i miei compaesani. Solo San Marco a Venezia superava il nostro, ma quello non era in "gara". Eppoi il nostro era esile, elegante, pulito e abbordabile.
Nessuno controllava la sua base e men che meno la sua guglia.

L'intento dei due improvvisati acrobati era quello di raggiungere la cella campanaria a circa cinquanta metri di altezza. Ovviamente non usando le scale interne bensì in arrampicata esterna e libera. Uno sport all'avanguardia: "il campanilismo".
Molti della banda avevano tentato l'impresa. Io stesso, senza velleità e senza coraggio, mi ero fermato alla cupolina arcuata in cemento sopra la porta d'ingresso. Io stesso avevo più volte "circumnavigato" l'intero perimetro alto sul cordolo oltre il mosaico delle pietre a circa tre metri di altezza. Ma la fifa prendeva sempre il sopravvento e, fortunatamente, mi aiutava a desistere dal cimentarmi in maggiori altezze.
Quei due Roberto, invece, no! E pensare che erano solo due piccoli sgorbi. Niente di più.

Roberto, mio fratello, era magrissimo, le gambe due stecchi, capelli neri e carnagione scura. Forse grazie alla mamma, la mia, che era di origini calabresi. L'altro Roberto era uguale, ma pallido. Uscito dal buio di una casa con poche porte e senza cortile. Con gerani sui davanzali accuditi da mani sconosciute.
Credo avessero tentato l'impresa più volte in precedenza, ma quel giorno per astruse coincidenze astrali i due Roberto iniziarono l'ascesa con "il vento a favore".
Prima l'uno e poi l'altro. L'altro era mio fratello.

L'ascesa iniziò ovviamente dalla base, dove il robusto cavo di acciaio del parafulmine si conficcava nel terreno. Perché era proprio quello, il grosso cavo ancorato con altrettanto grossi chiodi alla parete nord ovest del campanile, la direttissima via per la cima.
Era pomeriggio inoltrato di un giorno d'estate come tanti, con un sottofondo di cicale e pochi rintocchi di campane e lontani schiamazzi di bimbi sul campetto di calcio dell'oratorio. E sotto l’incombente torre del campanile, loro due ed alcuni “supporter” della banda di cui un paio a far da palo agli intrusi. Tutti più o meno consapevoli dell'arditezza (non certo della pericolosità) di quella superba ed eroica azione. Ma il mio cuore batteva forte e dentro di me avrei voluto bloccare almeno uno dei due Roberto. Almeno il mio.
Stavo per farlo, ma nello stesso tempo ne ero orgoglioso. Fiero del suo coraggio e della fama e rispetto che ne sarebbe derivato. Lo lasciai andare quasi con invidia.
Partirono dunque, veloci ed agili come due scimmiette arrampicatrici. Alla prima finestrella si fermarono per prendere fiato e per deridere i sottostanti.
Roberto, quello pallido, passò oltre la seconda ignorandola quasi. Mio fratello si fermò e da lì non si mosse per parecchi minuti. Una spinta verso l'alto ed una subitanea scivolata verso giù. Le mani attorcigliate al filo, lo sguardo verso le invisibili campane e le parole incomprensibili lanciate verso di noi.
Il mio Roberto alla seconda finestrella perse il coraggio, la fluidità dei movimenti ed iniziò a tremare. L'altro Roberto raggiunse la terza.
Poi arrivarono i vigili urbani.

Chiamati forse dalla gente di passaggio lungo la strada provinciale. Due uomini in divisa di cui uno, il più giovane, terribile. Era conosciuto e temuto in paese per la sua severità e anche noi di via Argine ne avevamo "apprezzato" la perizia e le terrificanti capacità intimidatorie.
Lui, il terribile, chiamò i carabinieri. I carabinieri, mentre a gesti invitavano i due a scendere, chiamarono i genitori.
Mio fratello piano piano, senza aiuti, lasciandosi solo scivolare lungo il cavo di acciaio mise i piedi per terra senza traumi, ma con occhi sbarrati per la presenza dei carabinieri. L'altro Roberto dalla terza finestrella sbeffeggiava tutti, vigili, carabinieri, la piccola folla e i ragazzini del campetto di calcio che da lontano lo acclamavano.
Non aveva alcuna intenzione di scendere. Credo avrebbe passato lassù la notte se non fosse arrivato il padre.

Noi tutti eravamo a conoscenza della severità di quell'uomo minuto perennemente vestito in giacca e cravatta. Il giovane vigile era terribile, ma il papà del pallido ragazzino era qualcosa di pauroso. Semplicemente spietato nei confronti del figlio.
Mi allontanai un poco da quel luogo da "tregenda" con mio fratello scortato, ovviamente senza alcuna benevolenza, da un carabiniere. Da lontano osservammo l'altro Roberto scendere piano piano mentre il padre sfilava la cintura dei pantaloni.
Mio papà e l'altro papà (che tra l'altro avevano, anche loro, lo stesso nome) passarono la serata, fino a notte fonda, in caserma.

Il giorno dopo, forse era sabato, nostro padre, troppo buono e infinitamente comprensivo, dopo una piccola ramanzina perdonò Roberto e ci tranquillizzò dicendo di aver passato la serata precedente in caserma giocando a carte.
L'altro Roberto non si vide in giro per oltre un mese.
Sai trasmettere la grande spensieratezza dei giorni della infanzia e giovinezza che abbiamo vissuto inconsapevoli senza porci domande ed ostacoli ai nostri piccoli sogni. Grazie Roberto
O mamma.... Ho le vertigini solo a immaginarmi la scena
Bravo Luigino! Che coraggio che avevano i due Roberto e molta imprudenza
La Gioventù a sempre bei ricordi, oggi i ragazzi non godano di queste giornate solo telefono e senza compagnia.
Storia incredibile! Bravo!