CAPOBANDA
- Luigi Perissinotto
- Nov 20, 2024
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Updated: Nov 21, 2024
20 Novembre 2024
Anche adesso, quando incrocio il mio vecchio boss, il malvagio capo banda, abbasso gli occhi, cambio marciapiede e spero di non essere visto e di sopravvivere. È più piccolo di me, è più vecchio di me, ma io lo temo. Gli occhi sono braci di carbone e la pelle è tirata, scura e coriacea, e io lo temo.
Ne avevo paura già ai tempi delle elementari e questo stato d’animo non mi ha mai abbandonato. Lui, di alcuni anni più grande era, per origini divine e per indicibili meriti, il leader indiscusso. Nessuno, nemmeno i soldati più grandi, avevano l'ardire di controbattere alle sue parole o di mettere in discussione le sue decisioni. Ed alcuni suoi verdetti erano davvero sciagurati. Ho già raccontato di furti di carburante, di pneumatici, di elemosine in chiesa e di altre nefandezze. Vi erano però alcune circostanze, meno efferate di quelle menzionate, tali da arrecare in me una grande sofferenza ed in certi casi profondo patimento. Erano le continue aggressioni, le metodiche sopraffazioni perpetuate con sprezzante brutalità verso gli stessi membri della banda ed in particolare contro mio fratello.

Roberto non era tra i più piccoli di via Argine, lo sembrava perché era magro, tutto pelle e ossa, diceva mia mamma, rachitico dicevano gli altri.
Era anche veloce e scattante, tanto da lasciare sul posto, interdetti ed irritati i violenti e tutt'altro che anonimi inseguitori. Ad ogni affronto o sopraffazione subita, contrariamente al buon senso, il piccolo soldatino aveva l'ardire di svillaneggiare il capo e la pletora dei suoi più fedeli seguaci con, in prima fila, parenti ed affini.
Raramente le cose finivano in modo pacifico, non era questa la filosofia della disgraziata masnada di giovani briganti. La tacitazione equivaleva alla resa o peggio ancora ad una palese infingardaggine, sia dall'una che dall'altra parte. Malauguratamente la parte più efferata, cruenta e cattiva, era quella opposta a mio fratello. E lui, sistematicamente, prima o poi, le prendeva!
Il casus belli (l'atto di guerra) scaturiva per faccenduole di poco conto. Baggianate che, agli occhi del capo, diventavano comportamenti di inaudita indisciplina. Intollerabili per chi era abituato e pretendeva il muto servilismo. Alcuni appartenenti alla banda, io tra questi, non possedeva la prontezza o la scaltrezza fisica e mentale per sfuggire alle ire del capo e, privo della velocità motoria di mio fratello e della sua indole impavida, ero inerte e succube a tutte le angherie. In termini più espliciti facile bersaglio di pedate, pugni e altri, leggeri o pesanti, maltrattamenti corporei.
Il caos prendeva forma improvvisamente e per atti e comportamenti del tutto marginali.
Il pallone che rotolava dal nostro inconsueto campetto, lungo il pendio inclinato dell'argine fin dentro agli orti delle misere casupole sottostanti era spesso il pretesto scatenante. Niente di eccezionale, accadeva praticamente ogni pochi minuti di gioco, nel momento in cui la palla finiva fuori campo. Questa seccatura che interrompeva la partita, avveniva sia dalla parte del fiume, dove il rotolamento era rallentato dall'inclinazione verticale del fianco arginale, ma principalmente dalla parte opposta, verso le case e gli orti, dove l'uscita dal terreno di gioco era estremamente agevolata dalla repentina pendenza contraria e dalla mancanza di qualsiasi impedimento.
Ovviamente il "capataz" comandava l'immediato recupero della palla ad uno qualsiasi, senza distinzione, dei suoi subalterni e quando capitava a mio fratello già si sapeva che erano guai.
Solo Roberto osava ignorare l'ordine e ad evitare il recupero del pallone tra gli orti, ma non le conseguenze!
Al suo diniego, esattamente in quel preciso momento, con diabolica sincronia, si materializzava inaspettata e solidale una coalizione del tutto paradossale, sgangherata e vociante, una sorta di scombinata “Armata Brancaleone”. Il branco dava subito inizio ad una volgare e squilibrata caccia alla volpe, una battuta diseguale con forze sproporzionate. Una misera ed ossuta preda contro un esercito di cani ringhiosi. L’esito non era mai favorevole allo scaltro animale e la cattura, non era affatto il male peggiore. La fuga e la precaria scomparsa tra le case e gli orti o dentro le mura domestiche presagiva e garantiva danni assai maggiori. E quando ciò accadeva, quando Roberto riusciva a farla franca, erano cavoli amari! Per lui e per me!
L'orda del capo, dopo cotanto disonore, pianificava il proprio riscatto, senza prendere in considerazione una eventuale remissione bensì auspicando un completo annientamento del fuggiasco.

Capitava quindi che per andare a scuola, con i nostri bei grembiulini stirati e guarniti di regolamentare fiocco e con la nostra ingombrante cartella di ruvido cuoio, ad un certo punto dovessimo rallentare il passo per cercare una via di scampo e, nel peggiore dei casi, per prepararci alla guerra. La camminata diventava presto convulsa mentre il cuore batteva forte e le gambe iniziavano a muoversi freneticamente. La decisione senza indugi e senza parole era già presa: ancora la fuga, mai la resa!

Il temuto branco aveva già preparato l'imboscata e per noi era facile capirlo dal posizionamento dei grandi: fratelli maggiori, famigliari e voltagabbana. Quelli che fino ad un attimo prima erano i nostri compagni di gioco.
Il "fuoco amico" era ben più violento, subdolo e disonorevole di quello dei famigerati Kamemoti... due contro tanti era inammissibile ed indecoroso nelle guerre tra "buoni" nemici!
I due scolaretti potevano solo e ancora una volta fuggire a gambe levate. Uno dei due, il più lento, era presto catturato e prontamente "torturato". L'altro, la vera preda, violentemente ingiuriato e bersagliato da una pioggia di sassi.
Ma la battaglia non era finita fintanto che la volpe zampettava libera. Questo pensavano i barbari e questo era chiaro anche per i due fuggitivi. Pertanto, al pomeriggio, noi fratelli restavamo asserragliati in casa o tra le tane lungo la riva del fiume in prossimità del territorio di frontiera con i Kamemoti. Nella speranza che quelli della nostra banda ne restassero lontani.
Il “problema”, pare incredibile, era la nostra mamma.
Quando, a voce alta dalla finestra del piano superiore di casa, ci chiamava per nome, una due tre e più volte “Luigino Roberto, Roberto Luigino”, per farci fare il più semplice dei lavori domestici: acquistare il pane, un cartoccio di sale o una manciata di fagioli secchi.
Al richiamo di mamma, sebbene riluttanti, non potevamo negarci.
Purtroppo, la scalcagnata tribù del capo si interponeva, bellicosamente se nel tragitto di poche decine di metri, tra la nostra casa e le botteghe del "panetier" (panificio) e del "casoin" (alimentari). Via Argine era per noi bloccata in prossimità del cantiere edile, a breve distanza dalla piazza e dai negozi.
Dire a mamma che a pochi metri da casa ci attendeva un violento pestaggio se non la morte era impossibile. Inoltre, la soluzione, quella di allungare il percorso, non era delle più facili e spesso altrettanto pericolosa quanto seguire la "retta" via.
Per evitare i "nostri" era necessario passare attraverso il territorio degli eterni e reali nemici: i Kamemoti!

Tra le botte dei nostri e quelle loro erano preferibili queste ultime. Pertanto, per assolvere alle esigenze di mamma diventava obbligatorio allungare il percorso di circa un chilometro, con il rischio di un attacco nemico (quello dei kamemoti), tra l’altro con noi sprovvisti di armi, e di un sicuro agguato “amico” (quello della sventurata coalizione) nella via del ritorno. Praticamente braccati tra due fuochi.
D’altronde, il capobanda non mollava la presa fintanto che la volpe non veniva agguantata.
Cosa che avveniva puntualmente. Dopo un giorno, dopo una settimana, ma inesorabilmente sopraggiungeva.
La scaltra volpe riusciva però ad evitare e scongiurare quasi sempre le botte. Ormai l'ingiuria e lo smacco erano passati e quasi dimenticati. Restava al “piccolo boss di via Argine” solo la voglia di ribadire la propria supremazia impartendo nuovi ordini e progettando nuove angherie e, agli altri del branco, dimostrare il loro senso di appartenenza ad un clan prepotente al limite della malavitosità.
Solo a me, restavano le botte. A mio fratello restavano le gambe veloci e alla mamma alcune bugie sui miei lividi.
Il giorno dopo eravamo nuovamente membri effettivi e fedeli alla banda di via Argine. E al suo famigerato capobanda!
Adesso capisco perché sei così 😂
Scherzi a parte... qui c'è l'origine del bullismo!!!
Comunque tutto il mondo è paese.
Anche a Venezia in quegli anni specialmente nel sestriere dove sono cresciuto (Casteo) non era molto diverso.
Che angoscia per leggere questa storia...
Grazie per questa bella e realistica narrazione di vita.
Bravo Gigi
Alla prossima prossima!
Fabio Bozzy Bozzao
Ammazza quante botte! Che infanzia difficile hai vissuto! Ne sei uscito vivo ma ben stirato...
Grande racconto e foto bellissime!
Bravo e umano come sempre, Gigi!
Ciao, Antonella