TECE
- Luigi Perissinotto

- Jun 20
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Updated: Jun 21
20 giugno 2025
Nonna Isetta non adoperava pentole in acciaio con il fondo antiaderente tantomeno pentole a pressione e wok. Non esistevano, per lo meno non a casa nostra.
Possedeva però una dotazione di tece da paura. Tece, tecete, pignate e padee, querci e qualche teglia per il pasticcio. Tutte in alluminio. E una caliera in rame per la polenta. Che non usava. Un armamentario completo e… da paura...nel senso che tutte erano vecchie, ammaccate e storte come se un branco di capre le avesse travolte a suon di zoccolate.
Tutte erano maldisposte ed allineate a casaccio.
Su ripiani in brutta vista, accatastate sotto il lavatoio, ammonticchiate le une sulle altre dalla più piccola alla più grande e viceversa, tutte al contrario e tutte sottosopra in un apparente e sgradevole disordine. Quindi incredibilmente rintracciabili, ma solo da lei. Dalla mia inflessibile nonna trevigiana.
Perfettamente pulite, con sabbia e paglia di acciaio e, talvolta, con due sbuffi di VIM. Leggeri, il minimo per far uscire la polvere bianca abrasiva dai cinque fori del barattolo biancoblù a forma di cilindro, per me talmente iconico da avergli dedicato una delle mie storie.

Il vario pentolame era come animato di vita propria. C'era sempre un tegame sul fuoco, una pignatta con l'acqua in ebollizione, una pila di tecette sulla pietra del secer (lavello).
Le pentole talvolta giravano per casa. Le trovavo sul davanzale o sotto la pergola dell'orto, addirittura sopra il bancone di falegname del papà.
In questi contenitori, palesemente fuori luogo, isolati come dei bimbi in castigo, la nonna riponeva strani alimenti. Talmente stravaganti che avevo quasi timore ad osservarli.

Sul davanzale, in penombra, vi erano degli esseri alieni immersi nell'acqua: i garusoi (murice o lumaca di mare), concreti e spigolosi come una scogliera frantumata. Al riparo sotto il pergolato di uva fragola, in un bianco catino di latta, centinaia di bovoleti (lumachine di terra), talmente numerosi da creare una scarpata di ghiaia viva in procinto di lievitare tra le file di iris viola del giardinetto.
Talvolta, sempre in quel catino e da quel catino, uscivano strani pigolii, sommessi ed incessanti ticchettii metallici, un sottofondo inquietante, oltremodo minaccioso ed ostile quando affioravano le chele fameliche, gli artigli e gli occhi sporgenti e torbidi delle masanete (granchi).
Infine, nell’angusto locale trasformato in falegnameria, tra i trucioli e le pialle, immersi in acqua gialla e torbida sbrecciati tocchi di "puzzolente" baccalà.
Erano questi ingredienti, più o meno vivi, che abbisognavano di un intervento “tecnico” da parte di papà per diventare commestibili, faccenda che, alla nonna, generale a cinque stelle, proprio non andava a genio. Lei pretendeva completa autonomia e pieno controllo di tutte le operazioni, dal concepimento del piatto alla presentazione in tavola. Cucina, davanzale, magazzino o soggiorno poco importava, contavano solo le sue mani, le uniche in grado di eseguire misteriose ricette mai scritte e mai raccontate. Che poi ricette, come intendiamo oggi, proprio non erano. Mi sembravano piuttosto manifestazioni di benevola magia o esperimenti di genuina e spontanea creatività, tra fumi, odori e strani sfrigolii.
La stufa a legna, quella "economica" con i cerchioni sul piano di cottura, era sempre accesa. Estate e inverno, anche quando arrivò il primo fornello alimentato dalla bombola del gas.
Al mattino, in inverno quando il sole ancora escludeva il giorno, sul fuoco già c'era una tecia, di quelle più alte e capienti, con pezzi di carne e ossa e cipolle e sedani e zampe di gallina. Per il consueto brodo e l'altrettanto abituale ed immancabile lesso. Talvolta accompagnato dalla lingua salmistrata e dal “musetto del contadin" (cotechino).
L'odore in casa, con questi ingredienti, non era dei migliori, ma c'era di peggio. Di assai più sgradevole. Fetore allo stato puro...capitava quando era la giornata della trippa. La odiavo quella giornata (anche la trippa), ma ancor più del nauseante olezzo, odiavo il durevole e denso vapore, una sorta di foschia che si alzava e si propagava dal minuscolo cucinino all’attigua sala da pranzo, in piccole nuvole sbuffanti che fuoriuscivano dal coperchio alzato dell'immonda pignatta.
La trippa, a quei tempi, si acquistava molto al naturale, il contenitore (la pancia) quasi assieme al contenuto, lercia e maleodorante. Le operazioni per renderla "mangiabile", a suon di energici lavaggi in acqua bollente con aggiunta di erbette ed aromi vegetali, erano macchinose e ripetitive.
Alla fine, le varie trippe (in brodo, alla parmigiana o in bianco) erano apprezzate dai grandi. Io e mio fratello, con il naso turato, avremmo preferito saltare il pranzo.
C'erano altre puzze provenienti dalla cucina e dalle tece della nonna. Puzze che poi si trasformavano in cibi. In ordine di sgradevolezza: la renga (aringa), i cavolfiori e il baccalà.
Ovviamente c'erano anche gli "odori profumati", gradevoli ed invitanti.
Al mattino, pan-e-late, preparato con gli avanzi dei montasù (tipico formato di pane veneto) del giorno prima inzuppati nel caffelatte, con una buona dose di zucchero per ogni strato di pane; al sabato e nei giorni festivi, un morbido e fragrante dolce di carote o i zaeti (focaccette con farina di mais e uva sultanina) acquistati ancora caldi, all'alba, in panetteria.

Al mattino era la mamma che preparava la colazione. I pranzi e le cene erano, di norma, in capo alla nonna. Durante gran parte della giornata la mamma faceva la sarta ed aiutava la suocera dalle retrovie, senza gradi e senza dissapori, nonostante le sue indiscusse capacità culinarie. In particolar modo durante i fine settimana ed in occasione delle tante feste e degli altrettanto frequenti e conviviali banchetti con amici e parenti.
La nostra famiglia rispettava, senza stravaganze e con pochi eccessi, le tradizioni, anche a tavola. Quindi onore ai sabati e alle domeniche! con pasticci (lasagne) e risotti e brodi e carni alla brace.
Non eravamo affatto ricchi, papà operaio e mamma sarta, tre figli, una nonna e una zia, quattro stanze senza bagno, uno sgabuzzino, un orto prodigioso, un pollaio, alcune oche e alcuni tacchini, ed una cucina sempre in fermento. Una famiglia normale, modesta e dignitosa, come tante. La varietà e l'abbondanza delle pietanze, il ruolo privilegiato e centrale della cucina era solo un espediente, inconsapevole e genuino, per elargire affezione ed amore.
Il pasticcio era quindi alto, ricco e succoso con l’ultimo strato di lasagne brunito e croccante; il riso con i piselli dell'orto, profumato, cotto assieme al brodetto ristretto dei baccelli e con parte dei legumi schiacciati per creare una leggera crosta in superficie dove spargere, senza insabbiarlo, il formaggio grattugiato.
Il sostanzioso brodo di carne era indispensabile per la minestra con i fidelini (capelli d'angelo) spesso arricchita con tocchetti di fegatino e durone di pollo. La pentola del brodo era talmente capiente che la nonna invitava le nostre vicine di casa, povere con figli a carico e marito in genere ubriacone, a riempire le proprie casseruole con abbondanti mestoli di brodo mischiato a pezzi di carne.
Il pollo ai ferri era compito di papà. Lasciato macerare tutta la notte con salvia rosmarino, olio limone e uno spicchio d'aglio, spargeva, durante la cottura su braci di legno di acacia, il proprio profumo lungo tutta via Argine fino in piazza e fin dentro le osterie.
Venivano ovviamente celebrati anche i giovedì ed i venerdì. Quindi, per tradizione tramandata di madre in figlia: giovedì gnocchi!
Ed erano gnocchi per davvero! Non gnocchetti striminziti bensì grosse palline oblunghe e paffutelle. Di patate grosse dell'orto, cotte e pelate e schiacciate e infarinate e impastate, con uova delle galline nostrane, con vigore e con altrettanta delicatezza. Tirati garbatamente uno ad uno con la forchetta per creare tre solchi di consistenza per il sugo, per il ragù o per il burro. Infine, in un bollore di fumo e di profumo, arrivavano caldi e fumanti in tavola, fragranti ed illusori a mistificare una parvenza di “povera opulenza”.
In famiglia, inconsapevolmente rispettosi di atavici precetti religiosi, anche il venerdì aveva il proprio rituale. Pertanto: venerdì pesce! Ed era pesce a 360 gradi. Era tutto il mare e tutto il fiume che arrivava da noi in bicicletta.
Passava al mattino con una cassa di legno fradicio sul portapacchi ed una cesta in bilico sul manubrio un uomo, un pescatore che forse pescatore non era.
Credo si trattasse piuttosto di un furbo mercante che acquistava il pesce dai barcaioli del Piave. Era comunque in grado di soddisfare tutti i desideri della nonna e del papà. Bisati, pescigatto, marcandole, garusoi, cape lunghe, cape tonde, cape sante, moeche, peoci, sepe, folpi e moscardini.
I bisati (anguille) finivano in tecia con salsa di pomodoro fatta in casa e amoli verdi (prugne selvatiche), oppure nella brace scottati in superficie per creare una consistente e corposa crosticina.
La specialità di papà erano però i "garusoi sul balcon". Un nomignolo da noi inventato per indicare un fornello a gas sul davanzale, una capiente pignatta e garusoi a volontà per tutti. In piedi senza posate, fuori in cortile al di là del balcon (davanzale). Ognuno, con un pezzo di carta oleata al posto del piatto, alle prese con l'alieno imboscato all’interno del carapace elicoidale. Mollusco, carnoso e tenace, che veniva estratto utilizzando la parte finale ed appuntita della prima "capa" (conchiglia) inserita in guisa di uncino nell'apertura della seconda. Niente olio, niente limone, niente sale, solo una leggera spolverata di pepe nero. Una specie di spartano antipasto, in scena nel tardo pomeriggio.
Eppoi per cena, a cura della nonna, le "sepe in tecia". Rosse, succose e sempre abbondanti. Con polenta bianca fino all'ultima traccia di colore.

Restano da coprire gli altri giorni della settimana.
Lunedì, martedì e mercoledì anch’essi ampiamente onorati, con pari e forse maggiore dovizia.
Giorno dopo giorno, con una precisa alternanza ed in base alla stagionalità.
In autunno piopparelli e chiodini raccolti lungo la Piave in competizione con i fungaioli di mezzo paese. In anfratti tra i boschetti di acacia o tra i rovi ed i sambuchi. Alti sui tigli e sui pioppi, quasi immersi nell'acqua tra le radici profonde delle acacie e dei gelsi.
In inverno pasta e fagioli a pranzo e radicchio e fagioli per cena. Quest'ultimo un piatto indispensabile, tradizionale, simbolico e, soprattutto, povero, disadorno e quasi squallido. Buonissimo. Con i “radici verdi col sochet” (radicchio verde di campo), completi del piccolo e bianco rizoma, con l'aggiunta di cipolla bianca cruda e aceto.
In estate pomodori dell'orto a volontà e in tutte le maniere. La nostra versione preferita, per quelli più grossi e non del tutto maturi, tagliati a grosse fette, sulla brace assieme al pollo.
Peperonate a volontà. Per utilizzare tutti gli ortaggi da noi coltivati: melanzane, pomodori, zucchine e ovviamente peperoni in grande quantità.
Un contorno, ovvero un secondo piatto estivo, talmente frequente ed abbondante che spesso la merenda del pomeriggio era un mezzo montasù imbottito con questo sgargiante miscuglio di verdure.
Alla sera pollo rosso in tecia completo delle varie frattaglie (zampe, collo, ali e alcune parti selezionate delle interiora). Con la cartilagine delle ossa ed in particolare delle zampe che si appiccicava alle dita.
In primavera tutte le erbe spontanee dei campi. Sciopeti, pevarel, bruscandoli, prevede, sparasine e radicet (carletti, papavero selvatico, germogli di luppolo, tarassaco, asparagi selvatici e radicchietto). La specialità della nonna era un misto di pevarel, prevede e radicet cotti in tecia larga con tocchetti di lardo.
Alla sera il coniglio in pevarada (salsa pepata) con polenta abbrustolita. Ogni famiglia aveva, ed ancora ha, un modo personalizzato per prepararla. La nonna usava il fegatino del pollo, carne di manzo tritata finissima e mezza salsiccia, olio limone e abbondante pepe.
Le ricette (inesistenti), anzi il lavoro in cucina, era l'occupazione principale della nonna. Le varie preparazioni erano il risultato di tracce verbali tramandate, di anni di esperienza di molta inventiva e parecchia manualità. La ricordo davanti alla stufa, dal mattino alla sera, ero convinto lei fosse nata lì e che lì dovesse morire. In un certo qual modo così in effetti avvenne.
Dire che i suoi piatti ed i suoi sapori sono rimasti imbattibili ed indimenticabili è fin troppo banale. Perciò non lo dirò.

Qualcosa però proprio non mi piaceva.
Non gradivo affatto le varie ed indefinite frattaglie, anche le lumache e le rane non erano, all'epoca, da me apprezzate, assolutamente insopportabile e nauseante la minestra calda di riso e latte.
Le cose più buone: tutto il resto!
Infine, dopo tanti anni e tanti manicaretti, ho un piccolo grande handicap che ancora mi perseguita. Riguarda il cibo più semplice e comune. Il pane.
Lo zio Bruno, un muratore grande e grosso, sposato con la cara zia Elsa e senza figli, tutti i sabati e tutte le domeniche era a tavola con noi.
La nonna in queste occasioni infornava una voluminosa pagnotta sebbene, in dispensa, c'era sempre l'immancabile montasù. Lo zio, grande mangiatore e altrettanto valente bevitore, ingaggiava la gara all'ultimo boccone.
Io non potevo ingurgitare tutto quel cibo e per non sfigurare mi buttavo sul pane. E per non sfigurare anche su quello ero costretto a mangiarne più dello zio.
Con la pasta, con i gnocchi, con i fagioli e con la polenta.
… purtroppo, con il pane, la gara non è ancora finita.




Ciao Gigi! L'anno scorso la coinquilina e coinquilino di altre regioni hanno iniziato a usare tece/tecia perché funzionava anche per loro che hanno altre parole dialettali, invierò loro il racconto così possono respirare il contesto della parola :)
Bellissimo racconto,
In parte mi ci ritrovo perché la mia infanzia a Polcenigo allevato da mia nonna non era molto diversa, pesce a parte.
Mi hai aperto tanti cassettini della memoria...
Ciao
Fabio Bozzy Bozzao
Ho letto con gusto il racconto di sapori ormai sfumati nel tempo. Un piacevole tuffo in ricordi sempre vivi. Bravissimo Luigino.
I miei ricordi sono simili ma riferiti alla mia mamma, la nonna non l'ho mai conosciuta. Il coniglio con la pevarada, il baccalà alla vicentina e le verdure di campo più buone del mondo le faceva la mia mamma. " SAPPILO....."🤭🤭
Molto, molto, molto bello e pieno d'amore. Mi sono sentita come presente anch'io nella cucinetta a riempirmi degli odori dell'onorevole cucinato della nonna IsettaIsetta, nonché a tavola con i succulenti gnocchi e con lo zio Bruno.
Ancora una volta: BRAVO GIGI!😍
Ciao, Antonella