top of page

LA PORTA

  • Writer: Luigi Perissinotto
    Luigi Perissinotto
  • Sep 11
  • 4 min read

Updated: Sep 12

12 Settembre 2025

Eravamo dieci, forse quindici mocciosi con la faccia sporca, con molte gambe secche e braccia altrettanto coriacee, con ecchimosi e neri bubboni ovunque. Ed eravamo veloci, e moderatamente cattivi.


ree

Il più cattivo era il capobanda il meno cattivo, io. Perché lui era stupido ed anch'io lo ero. Ma io di più.

Lui dava ordini bislacchi, io li eseguivo, altri lasciavano fare. Anche gli altri erano stupidi. Ma io di più.

Ero sempre in prima linea pur essendo palesemente il più pavido. Non credo si trattasse di paura e men che meno di coraggio. Distorta disciplina, arrendevolezza forse. Fraintesa libertà certamente.


Ogni comando era, per me, un segnale di riconoscimento e di visibilità, un semaforo verde che dava via libera alla mia incoscienza, un pertugio tra le sbarre, una fuga nella pioggia in una giornata di sole, nella tempesta in un cielo senza nuvole.

Dava forza alle mie gambe lunghe e alle mie braccia legnose. Spuntavano, in quei momenti, piccole gemme di sangue tra le croste rinsecchite e tra le giunture dei gomiti e lo snodo delle ginocchia, nuovi germogli di puro vigore.

Un fremito di energia pura. Esclusivamente fisica, ruvida e primitiva mentre cervello e cuore dormivano sotto il roteare frenetico e sgraziato delle ossute membra.


Eppoi, ad onor del vero, gli altri erano piccoli e veloci. Avevano gambe corte e braccia di funamboli. Io, lungagnone e bradipolante stavo bene in prima linea a prendere sassate. Una specie di sbilenco scudo umano trasformato in uno spaventapasseri.


La banda sapeva menar le mani, io le tenevo in tasca, tutti usavano parole violente io tacevo, al limite balbettavo. E le sassate erano solo salvezza. E gli ordini del capo assoluta perdizione.


Quel giorno l'ordine fu preciso e perentorio. Uguale a tanti altri, diverso perché incompreso. Dipendeva da me coglierne il senso. Esso si rivelava piano piano, dal modo con il quale ero costretto ad accettarlo senza mai comprenderlo. Nell'intuire le modalità di esecuzione e la carica di adrenalina in esso celata.


Quest'ultima prevaricazione era particolare, ma non eccezionale. Oggettivamente facile dal punto di vista operativo, incredibilmente turbativa sotto il profilo morale.

Dovevo scrivere solo due parole! Grandi, evidenti, leggibili anche da lontano, fluorescenti, in stampatello, in un punto strategico, in un contesto clamoroso e divisivo.

Due semplici parole. Una, un nome di donna, bello e assai comune, l'altra bieca e ugualmente comune.

Un vocabolo femminile ed un epiteto scurrile ad esso rivolto. Tanto bastava. Nulla di più. Senza punti esclamativi, simbolo grafico allora del tutto sconosciuto, talmente categorico che non ci sarebbe poi stato male.

Senza sottolineature, virgolettature, interpunzioni e disegnini o altre amenità tanto in voga oggi. Solo un nome accompagnato da una offesa che in una sera d'estate, durante la consueta caccia ai pipistrelli, il boss mi aveva vomitato addosso.

Indicando poi al meschino pivello, con pari veemenza, il punto preciso dove tracciare il segno, dove lasciare lo sfregio.


Ricordo il mio abissale smarrimento e la fifa mista ad imbarazzo che mi pervase. Le parole che dovevo scrivere bastavano a farmi star male ed avrei senz’altro preferito un posto meno appariscente dove tracciarle.

Ovviamente non potevo aprir bocca, in caso contrario sarebbero state “bote da orbi”.


I pipistrelli (i notoli) iniziarono a cadere come foglie morte sotto i miei rabbiosi lanci di polvere e sabbia. La collera prese il sopravvento ed i poveri mammiferi alati, già duramente maltrattati, ne fecero le spese.


Passai la notte insonne alla ricerca di una scusa qualsiasi per evitare la perversa missione. Ma sapevo benissimo che non potevano esserci pretesti o scappatoie! Era necessario eseguire tutto e subito e con la massima perizia per far cessare definitivamente quel cupo risentimento.


Nel corso della mattinata cercai il materiale per eseguire la pessima iscrizione. Per prima cosa un pennello. Papà, falegname, ne aveva di tutte le misure e ne scelsi uno piuttosto grosso a punta arrotondata.

Poi la calce, bianca e luccicante, perfetta per accendere chiara ogni singola lettera. L'impresa edile in via Argine ne era fornitissima, altre volte era stata da noi furtivamente sottratta per tracciare le linee del campetto di calcio e non fu difficile procurarne un secchio traboccante.

Infine l'orario per eseguire il miserabile incarico: ovviamente all'imbrunire.


ree

Nel tardo pomeriggio tutto era pronto, tranne la mia risolutezza... che ancora vacillava.

In centro le osterie erano piene di avventori e si sentivano forte i canti degli uomini già mezzo ubriachi. Alcune donne uscivano dalla liturgia serale ed erano ferme davanti alla chiesa a parlottare tra di loro.

Io, con il mio secchio, mi celavo accanto ai cipressi.

Tremavo, il pennello era sparito immerso sotto la calce e le mie gambe erano diventate bianche e le mie scarpe pure.


Le lettere dell'infame “facezia” saltellavano impazzite davanti ai miei occhi… la prima parola, il nome di donna, era facile e breve, ma la seconda parola, sotto la prima, era leggermente complicata. In particolare la lettera doppia il cui significato non mi era del tutto chiaro...


Ormai la luce del giorno era solo un roseo e diluito riflesso dietro la chiesa verso il fiume quasi a marcare il profilo dell'argine. Il momento era dunque arrivato! Il secchio era mezzo vuoto ed il pennello un mestolo di polenta grondante.


ree

Inquadrai l'obbiettivo, il punto in cui scrivere. Laggiù, tra i cipressi, era quasi buio.

Il pennello cadde più volte mentre la calce mi colava lungo le braccia sino all'incavo delle ascelle. Non ero tra i più piccoli di statura, ma dovevo scrivere più in alto possibile e le gocce di calce, negli occhi, erano scintille infuocate.

Forse c'era qualcuno lì attorno, ma non ci vedevo più. Le lettere uscivano vive dal pennello, si muovevano e rotolavano, alcune spesse come una fetta di lardo altre sottili come le stringhe delle mie scarpe di tela Superga di seconda mano. Ormai trasformate in biancastre e slavate pantofole di ovatta marcia.


ree


La porta del campanile, oggi con il cancello in ferro
La porta del campanile, oggi con il cancello in ferro

L'ultima lettera era una "a" e non ero sicuro di averla messa al posto giusto. Comunque ero giunto alla fine. Guardai la porta del campanile senza vederla. Notte fonda e occhi di lacrime, rossi e brucianti. E il cuore che faceva rumore.

Mi parve di intravedere le lettere iniziali, una "F" e nella riga sotto una "P".


Non mi ricordo se il giorno dopo il paese rumoreggiasse per la profanazione, certo è che dalla porta di casa mia alla porta del campanile vi erano tracce di calce come palline di mollica disseminate da un’incauto Pollicino.


ree

Recent Posts

See All

3 Comments


Guest
Sep 13

Altri tempi , altri dolori ma di certo non minori ...anzi

Like

Vincenza Leanza
Sep 12

Ciao, bello

Like

Guest
Sep 12

Bello vivido! Un ricordo bruciante

Like

©2023 by Viaggi Senza Parole. Proudly created with Wix.com

bottom of page