ALTO LAZIO TRA ULIVI, QUERCE E TORRI ANTICHE
- Luigi Perissinotto

- Dec 6, 2024
- 4 min read
Updated: Dec 14, 2024
14-18 Novembre 2024
Ogni sera, per cinque sere straordinariamente lunari, ho cercato il profilo delle dolci colline dell'Alto Lazio marginate da una tremula linea arancione.
Un segno leggero via via più marcato dal sole autunnale, lento e calante lungo le pendici del Monte Soratte mentre la luna albeggiava, immensa e senza pudore in bilico sull'onda carminio ed evanescente del tramonto.
Per entrare quindi nel buio più luminoso attraversando la luce opalina che sovrasta e profila le lunghe pendici, alcune rasenti altre remote, come isole alte all'orizzonte, come un mare in quieta tempesta.
Gli ulivi, prima di acciaio, ora sono quasi blu per diventare un riflesso di schegge grigie colpite dai raggi obliqui di una grossa luna levante nel cielo stellato.


È una strana notte che avanza, una notte quasi mite, quasi primaverile, in questo novembre di precoce San Martino.
Sono stanchissimo perché ho lavorato. Sembra strano ma il lavoro rompe le ossa nello stesso modo in cui le spezzava ai nostri padri. Non ero abituato e mi sorprende la mia lucida vista mentre mi dolgono i piedi, mi sorprendono le mie emozioni mentre il respiro è quasi un rantolo.

Le luci della notte ora sono paesi. Brilla Sant'Oreste come nave incagliata sul fianco del Soratte, antico vulcano nel lontano riverbero di Roma. Stancano i miei occhi, puntati su lontani, alti e misteriosi castelli illuminati da bianche luci artificiali. E sulle torri, di bruni mattoni che non vedo, disperse agli angoli di gole profonde e nere, isolate nella notte a fortificare accessi di viandanti e assalitori.

Accanto a Civita Castellana la notte è profonda e la luna, nascosta oltre l'alto crinale, non consente alcuna visione nella repentina e breve discesa negli inferi per poi risorgere dove la via interseca quella che conduce alla prode Calcata.
A Castel Sant'Elia, dove troveremo molto più di un semplice conforto, la vecchia stufa ha cerchi roventi con castagne crepitanti profumate di bosco autunnale.
Vetusti anfitrioni, belli e maestosi, sereni e rugosi come le querce lungo anse di strade su lunghi poggi tra monasteri di tufo, ci accolgono e ci danno riparo dalla luna come fosse tempesta di neve rossa.


Il piatto è caldo di aromatiche verdure ribollite, il vino è buono la notte ci avvolge. Il sonno ci ristora.

Ed è un giorno nuovo. Rivedo, nel primo sole, l'alta campagna laziale. Curata come si conviene ad un paziente appena sofferente. Senza accanimento e senza leziosità. Uliveti ovunque e piccole macchie boschive. Di lecci e ligustri di noccioli e lentischi. Ancora querce poderose lungo le antiche strade romane. Da convento a convento, da santuario a chiesa, a grotta romita. Anfratti, gole e dirupi e morbide colline, un paesaggio di assoluta e commovente bellezza. Come un antico fondale di tela rinascimentale.


Arriviamo nella piccola selva argentea senza preavviso, tra campi coltivati e macchie selvatiche, poche case, un gregge e nessun cristiano.
Il podere è una dorsale di un lungo poggio degradante in una conca prativa. Quaranta piante, quaranta ulivi tra migliaia tutt'attorno. I nostri sono ovviamente i più belli. Alcuni sembrano, ai miei occhi profani, addirittura secolari. Alcuni sono alti e frondosi, altri più piccoli e ostinati altri rinsecchiti, un paio sono legna secca. I più vecchi sono carichi di frutti neri. Di olive grosse e succose.
Come ieri il lavoro è duro e lo sarà per altri due giorni ancora. Come ieri il lavoro è puro godimento dei sensi.


Ho buoni compagni, pochi uomini e poche donne, alacri e giudiziosi, come me avvolti in un baldanzoso entusiasmo. Hanno la tipica e "scrosciante" cadenza romanesca che un po' mi porta fuori strada, che un po' mi stordisce che assai mi rallegra. Mi par d'essere dentro una pellicola in bianco e nero degli anni Sessanta, in un film neorealista con Massimo Girotti o Silvana Mangano. E in quel palcoscenico, tra un evanescente Ettore Petrolini e un altrettanto visionario Gigi Proietti, sotto i rami cascanti di ulivi, le grosse fette di profumata “mortazza” e di gagliardo pecorino e le smisurate fette di pane casereccio e il rosso vinello confondono ancor di più, se mai bastasse, la mia estasi laziale.

Alla sera, prima che la grande luna faccia la propria ricomparsa, è tempo della raccolta. Le olive sono copiose e riempiono pesanti sacchi da trasportare su in alto, lungo il ripido crinale. E da lassù, dall'alto del poggio del piccolo podere, con un interminabile viaggio, fino al frantoio. Tra i boschi della Val Nerina.
In un antico casale che ho intravisto, sfuggevole e lontano, come le torri o le querce, in una notte fonda, scura fredda e "finalmente" senza luna. Oltre Ferentillo, in mezzo alla selva lungo un torrente tormentato, oltre un ponte di pietra lungo una strada di pietra dal nome misterioso: Monterivoso.



Compare solitaria una vecchia casa senza intonaco, è un antico e piccolo eremo restaurato, invisibile tra le fronde di alberi secolari, acceso solo da una piccola luce fioca e rossastra. Una locanda quasi, in mezzo alla notte scura, come quella apparsa a Troisi e Benigni in "Non ci resta che piangere".

Ad accoglierci un uomo barbuto e gentile, stranamente vestito come noi e incredibilmente comprensibile, nonostante un forte accento montanaro.
Abbiamo lasciato fuori la notte assieme ad un ululato lontano, forse un latrato, di lupi o di cani al cospetto di un cinghiale. Dentro un gradevole tepore, un acre profumo ed un fuoco acceso.
Molto più tardi, nell'oscurità punteggiata da piccole stelle lasciamo il frantoio e la strada nel bosco, lasciamo la Val Nerina e prendiamo verso casa. La notte è quasi alba. Le torri sono vaghe ed inaccessibili, gli ulivi un buco nero e le querce un tunnel senza luce.

Ho riletto quanto scritto... è troppo tardi e non ho voglia di riscrivere, tanto meno di correggere. Non mi pare esattamente una buona cronaca di viaggio, men che meno un resoconto puntuale, che peraltro non avrei mai voluto fare, mi sembra piuttosto un guazzabuglio impreciso di un sogno senza sonno. Da rifare (forse) quando mi sveglierò.




Belle narrazioni,
Polcenigo la mia seconda casa, la mia infanzia e il posto dove mi sono sposato...
Thanks
Ciao Gigi
Fabio Bozzy Bozzao