ANDALUCIA
- Luigi Perissinotto

- Oct 28
- 11 min read
Updated: Oct 30
15-22 Ottobre 2025
28 ottobre 2025
Racconterò di questo viaggio in Andalusia per ciò che i miei occhi hanno visto e per quanto i miei sensi hanno colto, tutto il resto, l'incredibile infinito resto, lo lascio agli infallibili mezzi di comunicazione (ai mass media).
Alle mille riviste, agenzie e pagine elettroniche lascio descrivere le maestose cattedrali e le segrete moschee, le fortezze e i castelli, le piazze e i palazzi che ho solo sfiorato, perché descrivere è il loro mestiere. Io al massimo racconto.
Racconto il paesaggio oltre il finestrino ad esempio. Il fuori che molti, per indole, stanchezza o indifferenza, spesso non osservano.
Un grosso errore perché il territorio, anche quello veloce che scorre lungo la strada, è parte integrante della cultura dei luoghi e dei popoli, vivo e vero, "dentro" come è più di una cattedrale di pietra.
Seduto in ultima fila, da Torremolinos a Siviglia, osservo, senza grande partecipazione, il susseguirsi di montagnole di senape gialla punteggiate da verdi cetriolini sparsi. Ciuffi di erba e sparuti alberelli come nei sulla pelle, grinzosa ed emaciata, di un “campesino”. Par di essere in un altro continente, forse in America, forse in Arizona e dal crinale delle colline immagino il palesarsi austero e silenzioso di cavalli e cavalieri Navajo.

Lentamente il paesaggio cambia, non molto, ma la selvaggia abbandonata ed incolta terra, prima solo polverosa, piano piano diventa florida piantagione.
Sono ulivi come soldati schierati prima del combattimento. Ordinate truppe in divisa argentata, prive di fronzoli, in un campo di battaglia senza ostacoli e senza un filo di erba. Infiniti ulivi, uno uguale all'altro, fotocopie vegetali sotto un sole mattutino grande, pulito ed improvviso; un disco giallo sopra un orizzonte di profili umani, di nasi e menti mastodontici. Spesso disseminati, come barba curata, da longitudinali schieramenti di argentei alberelli.



L'astro infuocato del primo mattino rilascia un azzurro chiarissimo quasi latte lungo lontani ed opposti confini, sopra di noi un blu non ancora intenso occupa una vasta porzione di pianure di dune mosse, ad occidente, fin dove lo sguardo può arrivare.
Il ciglio veloce della strada mi ubriaca. Guardo, se possibile, ancor piu lontano.

Ho contato 30 casupole bianche isolate tra le truppe vegetali d'argento come tende di comando di un generale in campo. Ho contato tre modeste macchie bianche (forse paeselli), lontane, di cento tende lungo i fianchi delle dune, accampamento di mille generali. Ho anche controllato un'invasione senza nemici e senza invasori, né mori né romani, tra l'infinita distesa di ordinati alberi di ulivo.
Non c'è battaglia in Andalusia solo olio per lampade di pace.

Ho chiesto al "mini-cervellone tascabile" quanti ulivi avrei potuto contare. Tre Puglie non bastano a contenere questa immensa oasi nel deserto andaluso. Fuori credo ci sia un silenzio assordante, senza cicale, senza vento e senza ruscelli e non scorgo presenza umana. Solo sole nel cielo e dentro la terra.
Ronda è sul baratro, sopra e sotto il ponte a tre arcate diseguali di pietra gialla. Un quadro iconico in cui desideravo immergermi e che un po' mi ha deluso.



Ho invece trovato un angolo di vera Andalusia lungo una acciottolata stradina di tavolini traballanti inondati di sole in una "taperia" senza turisti, tra vecchi muri, di poche pretese, con cibo colorato, speziato, strano, talvolta incompreso al palato, ma buono e conveniente.

A Ronda, isolata nell'entroterra andaluso, diventata negli anni meta turistica, siamo entrati nell'antica e bianca Plaza de toros, la più antica Plaza de toros di Spagna.
Un accesso dalle tortuose retrovie che non potrei chiamare stalle, piuttosto spogliatoi o anticamere, attraverso alte passatoie, contorti ed incomprensibili tornelli per il transito forzato di animali (tori e cavalli) e toreri.

Al termine, un passaggio angusto (una strettoia nella recinzione di mattoni) in forte penombra sbuca, audacemente, in uno spazio che stordisce per quanto immenso e pieno di luce sembra essere.




L’arena! Un incanto agli occhi per l'innegabile bellezza dell’ovale complesso, un tacito dolore per l'orribile fine che gli uomini, in questo anfiteatro, hanno riservato ai poderosi animali.
Per quanto elegante e romantica sia la figura del "Matador" il suo fine è quello di "matare" il toro ed è lui lo spietato "ammazzatore"!. La traduzione in italiano rende ancor più crudele questa immagine da copertina illustrata che, anche in Spagna, piano piano inizia ad essere rifiutata.
Meglio uscire dall'arena senza svolazzanti "muletas" senza lancio di fiori e roboanti "olè".
Gibilterra. Un'astronave.
Gibilterra è un posto sbagliato e fuori contesto. Non è Spagna e non è nemmeno Africa, è caotica e soffocante, è roccia ed è bosco, è strapiombo ed è palude, è metropoli ed è savana. Ci sono le scimmiette, 250 esemplari di bertucce (un macaco privo di coda) unica popolazione in Europa. Si parla una lingua mista di spagnolo e inglese e per entrare nel suo piccolo territorio si passa una frontiera che sembra un parcheggio.





Gibilterra però mi è piaciuta. Ho intravisto la sua ipnotica mole e la sua rocca da molto lontano, quando ancora il confine tra terra e mare si confondeva con il cielo.
Gibilterra è anche una nuvola. Una nuvola, oblunga e grigia che ho visto e che tutti possono vedere e che, senza alcun dubbio, è parte integrante di questo territorio d'oltremare britannico.
È una nuvola che ho attraversato durante l'ascesa alla singolare savana sospesa tra cielo e mare. Ed è senz’altro una attrazione concepita dall’uomo. Posso anche confermare che è fatta di gocce umide ed impalpabili, di vento e di grigio, ed è ovviamente ancorata, quasi bloccata alle intemperie ed a quel precipizio di roccia e tempesta, da invisibili funi.

Il giorno dopo l'Andalucia è finalmente Sevilla (Siviglia) ed è finalmente terra araba e moresca. Dopo lussureggianti giardini, dopo viali di platani giganteschi iniziano sentieri di alte mura e finestre e porte sbarrate con grate di ferro spesso eleganti, talvolta discrete, talvolta opprimenti. Servivano a tener fuori gli intrusi quando, per la calura, le finestre restavano spalancate alla brezza (quindi sempre) e servivano anche a mettere in “mostra” (chiedo scusa per il termine chiaramente inadeguato) le belle ed intoccabili fanciulle.

Poi il cuore di Siviglia si scopre giallo e ocra tra striature di mattoni cotti dal sole e luci senza ombre e sciabolate di bianco come diamante. E precipizi color zafferano sospesi su azzurri ponti saraceni di pietre bruciate diventate gesso.
Quindi il paradosso: ogni angolo è ombra profonda e frescura improvvisa. Nella macchia di evanescente tenebra, buia ed appartata dove l’arsura non trova nutrimento, cercano e trovano riparo raminghi forestieri. Poco più oltre ogni angolo è invece assolato e rilucente, ogni lato è inondato da bagliori persistenti e da riverberi immobili, penetranti e taglienti da far lacrimare gli occhi.

Talvolta qualcosa vacilla nel vento in mezzo ad una polvere lievissima. Nient'altro irrompe, nemmeno il silenzio. Non i suoni della gente, non le campane roteanti nelle torri, non i bimbi nelle ceste di vimini, non le cicale fuori stagione.

Sotto la pergola di vite rossa solo una brocca di acqua fresca e gocce di stillante rugiada tra le invisibili venature della lucida ceramica, un reticolo azzurro e marroncino, nodoso e sfuggente come legno levigato di giovane quercia. Unica fonte di freschezza. Unica acqua del mondo. La sola dell'Andalusia.
Come oasi nel deserto. Come pozzo scuro di acque ancor più scure e profonde.
Ottobre. Gli alberi in questa città non hanno perso le foglie, non le perderanno forse mai. Non gli eucalipti, non di certo gli aranci nelle piazze, in ogni giardino e dentro chiostri ombrosi.
Alcune foglie, poche, sono gialle, alcune solo rossicce, altre sottili ed impalpabili come veli dorati di odalisca, altre consumate da un sole non certo autunnale.
Pochi uomini curvi su fontane di marmo e di ferro, alcuni a rincorrere la penombra senza mai raggiungerla; osservo le antiche querce, alcuni contorti ulivi e gli aranci con frutti verdi duri e copiosi, purtroppo, in questa stagione senza fiore e senza profumo.
Ancora, come sempre in questa terra assolata, propaggine marocchina, immagino gente che si nutre di sole, che si veste di azzurro e che si disseta di tiepida rugiada da un coccio sbrecciato immaginato fonte.
Ovunque, ancora, finestre di grate di ferro massiccio come carceri di giovani fanciulle e vento senza finestre.
Osservo nuovamente il vasto giallo e l'immancabile ocra e, tra le crepe di un muro, come oasi nel deserto un segno di speranza. È solo un nodoso tralcio di vite avvinghiato in un angolo di in buio corridoio tra due chiese, accanto a palazzi all'ombra di antichi campanili. È il segno che attendevo, è un tenue raggio che trafigge l'oscurità... lentamente nella luce di ombre improvvise, una moltitudine di uomini e donne e bambini vocianti! Alcuni travisati nel buio tra le arcate della chiesa più importante, altri come lingue di fuoco nella luce accecante di Siviglia.
Oltre le strette viuzze irrompe il possente minareto, ora campanile, chiamato Giralda (alto 104 metri) e la bianca facciata e l'immensa e gialla mole della cattedrale, non lontano altri due campanili segnano la strada verso il Guadalquivir.





Accanto alla maestosa cattedrale edificata sui resti di una antica moschea, la più grande cattedrale gotica al mondo, quasi defilata e schiva l’arcata di un portone, aperto sulla lineare facciata rossastra, introduce ai giardini ed al palazzo reale dell’Alcazar. All’interno, come è peculiare e come si conviene ad una dimora araba, un tripudio di azulejos e di stanze segrete e portici e chiostri ombrosi adornati con discrete ed inavvertibili fontane, un ulteriore turbinio di colori e di esotiche (orientali) prospettive per i miei occhi.





Quelle alte torri in mattoni a vista, scorte da lontano ora, mentre ci avviciniamo, si trasformano in ottocenteschi ed anacronistici ascensori in immersione tra i tetti, per poi riemergere, saettanti, ai due estremi dello scenografico androne semicircolare di Plaza de Espana (Piazza di Spagna).



Appena sotto il portico di pietra e legno iniziano a scendere lacrime di emozione. Marzia non regge allo stupore, all'attonita bellezza, al sublime contesto. La piazza con le due imponenti torri, il canale ed i ponti con le balaustre di azzurra ceramica e la fontana che spezza la via di fuga ed interrompe la visuale.
Potrebbe essere tutto eccessivo ma tutto risulta equilibrato. La piazza è grande, ma nello stesso tempo è un abbraccio avvolgente, è un palcoscenico che non separa la platea, pare un monumento fatto per stupire. Probabilmente lo è.






Cordoba. Occhi e mente sottosopra. Dentro e fuori le antiche mura un miscuglio di emozioni un arcobaleno di colori una moltitudine di tesori, un unico timore: non aver capito.
Non la storia non i monumenti non la cultura non gli uomini non le religioni, ma semplicemente non aver capito perché siamo sempre in guerra con “l'Altrui”.



La Mezquita è una perdizione di colonne ed archi. La Mezquita è una moschea ed è anche una cattedrale ed è un posto alieno. Un turbinio eclatante e materico, ma nello stesso tempo spirituale, con angoli di osservazione che conducono alla allucinazione.
Un miscuglio di linee curve e baluardi verticali e colori alterni, ocra e rosso. Una mescolanza di fedi e fedeli.
Poi all'improvviso un ulteriore miscuglio di pinnacoli e croci ed altari neri e marmi bianchi. Soprattutto ebani neri, soprattutto una frustata improvvisa, un "quasi tormento" degli occhi.
Poi ancora un assembramento di ori ed argenti. Poi infine un giardino di palme ed aranci e ruscelletti di acque pendenti.





Torno al punto di ritrovo piuttosto confuso, ma molto, fin troppo entusiasta per le bellezze ammirate e per le emozioni sopportate.

Anche oggi, come in passato, il maestoso ponte sul Guadalquivir è attraversato da una moltitudine di persone, uomini e donne occidentali si mischiano ad uomini e donne Arabe e Musulmane, molti orientali seguono la loro guida in silenzio, alcuni italiani fanno confusione e si chiamano per nome ad alta voce.
Continuo a non capire perché, nonostante tutto questo, nonostante la bellezza e l'armonia e la generosità, siamo sempre in guerra con l'Altrui.








Granada. Il melograno più rosso. L'Alhambra misteriosa un tempo bianca e alta sulla glabra collina con i grani preziosi e rossi celati oltre le mura. Ora ocra immersa nel verde.
Granada e l'Alhambra vista dal quartiere arabo. Bianco come un borgo pugliese, alto sul versante del colle di fronte alla rossa fortezza, vivo e frenetico come un quartiere di Napoli, affascinante e romantico come le piazzette di Montmartre.






Granada delle mille "taperie" chiassose nella notte infinita con il battito di tacchi e mani e nacchere delle "Bailaoras" di flamenco. Il canto acuto, impetuoso e stridente per l'abuso di pessimo alcol del "Cantaores" accompagnato dal pizzico frenetico della chitarra gitana tra svolazzi di gonne di porpora e mantelli di seta della bella gitana. Energia pura.




Energia che impregna la gente, nei parchi e nelle strade, energia che sembra provenire irruente come un salto di cascata dal grandioso territorio circostante, dal paesaggio superbo oltre i campanili, le torri e le antenne della città.
Granada è adagiata ai piedi della Sierra Nevada, la catena di monti più alta della Spagna.
Sono monti grigi e spogli, quasi levigati, che ad ogni passar di nuvola cambiano colore. Monti innevati sopra una città spesso arroventata ed a soli trenta chilometri dal mare.
Monti che lasciano indugiare lo sguardo oltre le vette alla ricerca di altre cime e paesi invisibili che, come altri in Andalusia, sembrano desolati e privi di vita.
Montagne che lasciano scorrere, sotto la loro pelle, fiumi di acque limpide e copiose, necessarie alla vita ed energia cristallina per le vasche e le fontane dell'Alhambra.




Malaga è una scoperta inattesa. Sottovalutata se non denigrata da anonime voci distrattamente percepite, da me rivalutata, durante questa breve scorribanda, senza peraltro conoscerne le minime sfaccettature.
A Malaga il mare è vittorioso su tutte le bellezze. Forsanche a Pablo Picasso nato in questa città. Anche i monti e le muraglie dell’Alcazaba e le vecchie case inglesi e i paurosi palazzi degli anni ottanta devono inchinarsi alla profondità del blu di questo mare quasi oceano.




Qui, in questo luogo, ho la necessità di descrivere un aspetto per me secondario che solitamente escludo: il clima. Cosa a me del tutto indifferente.
Pioggia vento e nebbia sono a me graditi come mi è gradito il sole o la neve o la tempesta. Una coltre grigia di temporanea separazione la nebbia, magia di un silenzio dimenticato la neve, miele per le mie ossa e per la mia mente una giornata di sole.



A Malaga nulla di tutto ciò. Sembra che tutti gli aspetti positivi delle varie condizioni climatiche si siano fusi in un'unica, quasi indescrivibile, sensazione di benessere. Non so infatti come descrivere questa luce che sembra irradiarsi dal cielo intero e non solo dal sole, o il vento tiepido dalla montagna o la brezza proveniente dal mare. Provo a farlo con una sola banalissima parola: gratitudine. Forse perché non sono mai stato in Africa o in qualche isola tropicale o perché semplicemente ho scordato la Sicilia.



Infine Mijas Pueblo e Benalmadema Pueblo, due dei tanti “pueblos blancos” del Paese, così chiamati perché le abitazioni, costruite lungo vie molto strette, spesso arrampicate lungo i fianchi della montagna, sono tutte bianche per trattenere il meno possibile i raggi del sole.
Queste due cittadine offrono una vista spettacolare, lontana fin quasi alle propaggini africane, sul litorale e sulle proprie omonime località balneari.
Giù in fondo la costa è devastata dalle costruzioni, dagli alberghi di venti piani e trecento stanze, ma quassù, a pochi chilometri di distanza, la vita è quasi quella di un tempo.






In particolare a Benalmadema dove mi sono seduto accanto a due distinti signori, in panciotto e capello piccolo con falde rigide stile "sombrero cordobes" per chiedere, in dialetto veneto, solo per "tacar boton" informazioni che mai avrei utilizzato.
I due, dopo un primo momento di assoluto sgomento (la mia domanda riguardava la "paella"), mi hanno osservato in malo modo, mi hanno poi sbeffeggiato e alla fine reguardito con veemenza.
Primo: la paella è solo roba per turisti. Secondo: non esiste alcun ristorante in questo paese tra i monti dove fanno la paella. Terzo: io mi sono espresso in dialetto veneto mi hanno risposto, credo in spagnolo, e credo anche di non avere compreso assolutamente nulla!








Unica divergenza. ... Gibilterra no me gusta! Hasta la vista y muchas gracias de todo! La "viaggiante" dentro casa.... Annamaria
Carissimo Gigi grazie per questo tuo colorato,preciso e dettagliato reportage andaluso! Mi e' piaciuto tantissimo, anzi mediamente tanto,....rivedere Siviglia ammirata gia a geo e geo!🤩 Il tuo modo di scrivere mi ha portata la' con l'immaginazione....Un carissimo abbraccio e buona notte Sara( in compagnia di mater )
Ciao Gigi, racconto sempre bellissimo, mi hai fatto voglia di fare un giretto pr la Spagna...peccato solo che le bertucce siano state per conto loro...se avessero cercato di derubarti sarebbe stata un'altra esperienza da raccontare! 😂
Buongiorno Gigi bisogna ritagliarsi un tempo adeguato per leggerti. È come una lenta piacevole meditazione leggerti. È come essere lì con voi. Al prossimo viaggio vorrei esserci.
Un abbraccio
Tutto molto bello!!!