ARFANTA
- Luigi Perissinotto

- Feb 25
- 7 min read
Updated: Mar 11
25 Febbraio 2025
Arfanta. Già il nome del luogo è suono assai dolce per me.
Musicale e romantico. Mi viene in mente una selva ed in essa un cavaliere.
Una seta damascata e un drago verde in uno scudo in campo giallo.
Un castello di fanciulle.
L’origine del nome sembra provenire dalla cultura germanica. Ma non importa.
Arfanta di Tarzo è il nome completo. Come una nota od un fiore, un mistero di sacerdoti ed alchimisti medioevali, lungo la strada prima di arrivare in un “altro” luogo.

Erano boschi e vecchie cascine e povera gente.
Erano strade percorse da poche auto, alcuni carretti, piccoli greggi di capre, uomini e donne carichi di fascine preceduti da qualche oca altezzosa.
Erano paesi dal fascino quasi mistico.
Lo sono ancora. Lo è Arfanta! Salendo i tre ripidissimi tornanti del Prapian verso Mondragon la vedi sullo scranno del colle che nasconde Tarzo. Assisa come una regina, ieri quasi solitaria, oggi solo appartata, sempre bella, forse abbandonata.
La ricordo attraversata in lungo e in largo (ci vuole poco) con la mia Citroen Dyane azzurra. La ricordo in tutte le stagioni sfolgorante d'autunno, lieve in primavera. Verdissima e traslucida dopo un temporale estivo, candida ed incorrotta travisata da un delicato manto di neve in un plumbeo mattino di febbraio.


Arfanta è un mio luogo del cuore. Per tanti motivi, molti dei quali assolutamente astratti.
Arfanta è un piccolo borgo sopraelevato (376 metri) sulla pianura dopo Conegliano, tra i primi colli, oggi patrimonio dell'Unesco, piccola vedetta pacifica tra i laghi di Revine protetta dal Col Visentin e dal Pian de le Femene.
Arfanta è sempre lì, in quel piccolo posto, un puntino nel grande atlante dei luoghi amati, in quel gradino rigoglioso di viti e ulivi, autentica, tenace, diversa e uguale ad aspettarmi.
Ad Arfanta di Tarzo c’è poco, per alcuni non c’è niente, per me c’è tutto ciò di cui abbiamo bisogno, più di quanto mi potrebbe servire e molto di cui mi sono servito.
Io spesso arrivo, percorrendo gioiose longitudini trasversali, curve ed incroci fuori rotta, evitando il tragitto più breve, su strade diventate meno tortuose e boschi diventati filari e case diventate enoteche alla guida di una illusoria e vecchia Dyane, lenta e traballante che ancora vorrei.



Giungo infine ad Arfanta. Abbandono l'auto in panoramica posizione nello spiazzo davanti alla vecchia canonica, davanti alla splendida chiesa con accanto l'aspra e rocciosa torre campanaria. Un posto perfetto! Un luogo sublime.
Oggi non vedo Don Guerrino, non vedo la zia Elvira e non sento le voci dei ragazzi e delle ragazze dell'oratorio. Non sento il battito del piccolo motore dell'Ape di Nino. Odo solo il suono cupo e sommesso delle vecchie campane mentre la piccola alabarda dell'orologio, indicatore dello scorrere del tempo, scatta un minuto in avanti accompagnata dal rumore metallico di antichi ingranaggi. Un giorno, né sono certo, troverò ad aspettarmi Don Guerrino con la sua scura veste macchiata e polverosa, seguito dall'amato bastardino bianco e nero di nome "Iuventino" e da un paio di chierichetti.





Il vecchio sacerdote e la vecchia zia erano l'avamposto del paradiso di Marzia. Don Guerrino, fratello del nonno di Marzia ed Elvira, la cugina del prete. Non ci volle molto per sentirmi anch'io nell'anticamera dell'Eden.
Ho molte piccole storie da raccontare, in particolare su queste due persone. Storie minutissime, terrestri e celestiali, ruvide e nello stesso tempo gentili.
Don Guerrino sempre accogliente e di poche parole. Sorriso e gesti da montanaro sebbene Opitergino. Uomo fuori dal tempo, innovatore, lungimirante e rivoluzionario senza clamori e senza prediche. Nemmeno in chiesa. Alle prese, con la medesima intensità, sia nella preparazione dello spiedo sia nella celebrazione della messa sia, e questo in modo speciale, nell'intima vicinanza alle persone in difficoltà. Accanto sempre, genuino e discreto come solo un parroco di campagna può essere, agli ultimi ed ai poveri che, cinquant'anni fa, in quelle contrade oggi fiorenti e prosperose non era difficile incontrare.


Mi ricordo verso sera, nella luce tagliente del sole oltre il crinale di Rolle i volti ugualmente taglienti, scarni e fieri di uomini e donne in attesa, sui gradini della torre, di una ciotola di zuppa e di un pezzo di pane. Era compito della zia Elvira preparare un pentolone capiente di erbe, cipolle e tocchi di carne di animali di bassa corte (pollame e simili) per gli "ospiti della sera" e spesso, da quel contenitore, usciva un pasto caldo anche per noi.
Alla zia perpetua toccava anche il delicato incarico di preparare il pranzo della domenica. Lo zio Guerrino era molto esigente e prediligeva, quando ciò era possibile, quindi sempre, il pasticcio di carne con frattaglie varie. Più volte ho dovuto ingoiare, senza masticazione ad occhi chiusi con uno sforzo incredibile accompagnato da un bicchiere di vino bianco trangugiato in un sol sorso, interi bargigli e gialle creste di gallo.
I pranzi conviviali erano un grande godimento ed una occasione di conoscenza ed intimo esame spirituale per zio Guerrino. Con i parenti, con i compaesani e non di rado con gente del clero proveniente dai borghi vicini, ma anche dalle cittadine in pianura.
Marzia ricorda quando a 13 anni, assieme a due cugine di pari età, ha servito il pranzo ad un gruppo di compostissimi preti ed alcuni alti prelati. Tra questi ultimi c'era anche il futuro papa Giovanni Paolo I a quel tempo vescovo di Vittorio Veneto. Ebbene durante il pranzo Monsignor Luciani si rivolse all'amico sacerdote di Arfanta "... però, Don Guerrino, queste tatine (ragazzine) al servizio di noi religiosi con le gonne corte, mah?! ..." Marzia, prima che lo zio replicasse, incalzò il futuro papa "... allora lei, invece di guardare le mie gambe guardi nel piatto dove mangia". Ci fu un attimo di smarrimento al quale seguirono sorrisi di simpatia ed approvazione.

Questo tra le mura della canonica. Uno spazio, un luogo che ancora ricostruisco intatto nella mia mente. Sento ancora il calpestio del prete e della perpetua, le loro voci senza eco, gli odori della cucina e l’umidità dello scantinato e la polvere della soffitta. Per Marzia, più di una semplice casa: un posto in cui giocare, incontrare gli amici, fare progetti, ascoltare ed imparare liturgie prive di barriere.
Fuori, tra le colline ed i boschi di castagno, oltre le rive ed i pianori, tra le case sparse e le irte vigne, l’esistenza semplice dei contadini era la vera Messa. La gente di questi posti non chiude le proprie porte. Non le chiudeva mai la canonica, non le chiudeva la chiesa. Anche l’osteria era sempre aperta, la stalla e la “caneva” (cantina) e ogni altro uscio era spalancato. Perché ad Arfanta, lo voglio dire in maniera estremamente semplice: “ci si vuole bene”.

Lo zio, oltre ad essere il sacerdote di quella piccola comunità era anche il sindaco, il giudice e il confidente di tutti. Ricchi e poveri. Con lui venne rimessa in ordine la viabilità del paese, in particolare la stradina di tornanti che consentiva agli studenti ed ai lavoratori di recarsi a scuola o nelle fabbriche di Conegliano evitando il più lungo tragitto per Tarzo. Don Guerrino riportò agli antichi splendori la chiesetta, una antica Pieve riconducibile al Quattrocento, con il restauro del tetto, della lineare e semplice facciata, della sacrestia e soprattutto con una innovativa e lungimirante protezione delle opere d'arte in essa contenute, fra tutte un organo dei fratelli Callido ed una preziosissima pala raffigurante la Madonna con il Bambino fra San Bartolomeo, San Sebastiano, Sant’Antonio Abate e San Michele Arcangelo eseguita nel 1522 da Francesco da Milano.



All'epoca delle mie scorribande la chiesetta era aperta ed accessibile in qualsiasi ora del giorno ed in ogni caso le chiavi erano reperibili in canonica o presso la Signora Albina. Oggi, come avviene in tanti luoghi appartati e lontani dalle rotte turistiche, la chiesa di Arfanta nonostante i tesori in essa custoditi e nonostante la bellezza dell'edificio e del contesto paesaggistico nella quale è inserita, è chiusa e l'accesso deve essere preventivamente autorizzato.
Ad Arfanta l'ideale sarebbe poter essere un uccello. In volo le strade non hanno incroci e non hanno impedimenti. Solo larghissimi orizzonti e picchiate verso la terra e lanci verso le vette. Per capire dove siamo e quanto la bellezza può essere sorprendente, preziosa e precaria.
Le colline del Prosecco hanno, come ultima propaggine verso est proprio il territorio di Arfanta. Dall’alto le montagnole sono tondeggianti, pulite e ordinate lungo i declivi posti a meridione, leggermente più selvagge, leggermente boscose dal lato opposto. Punteggiate di casupole color ocra e piccoli agglomerati segnalati, nel volo planato verso terra, da leggiadri campanili e torri arcaiche.

Arfanta guarda l'immensa pianura e l'azzurrino dell'orizzonte potrebbe essere il mare ed il luccicore lontano lo spettro di Venezia.
Il volo si fa basso e radente ed i prati ed i campi e gli orti sono ricami di indescrivibile complessità, alcuni nel piano altri in forte pendenza altri ancora semplicemente scoscesi quasi sospesi.
Quando la parabola si conclude e lo sguardo ritorna ortogonale valico lo scalino proveniente da Tarzo ed intravedo, poco più in basso, l'amato borgo e l'incongrua torre tra le gocce dell'ultima pioggia colpite dai raggi del sole radente, come piccole scaglie di oro purissimo. Sembra un dipinto irreale mentre una leggera bruma si alza dal terreno ancor caldo intriso di acqua improvvisa e fredda. Il profumo è terreno ed i miei piedi calpestano ataviche zolle lussureggianti.



Vorrei volare ancora, magari sopra l’iconica ansa di Rolle sconvolta da centinaia di pali di vite contorti come dopo la mareggiata in una spiaggia Bretone. O scoprire da dove scende la fuggevole cascatella subito dopo il borgo, nascosta nel gomito di una curva ardita tra antichi lavatoi in pietra. Per arrivare ancora una volta dinanzi alla pura e spoglia facciata color albume della chiesetta di Arfanta.

Per rivedere il prete, la zia ed i miei parenti e gli amici. E Marzia vestita di bianco, in ritardo per colpa del parrucchiere, accompagnata da Giovanni, mentre aspetto in chiesa il suo arrivo quaranta anni fa.







Fantastico....(Narratore e Personaggio).
Sagace la risposta di Marzia (a proposto delle gambe, da evitare di guardare!!!!)
Un caro saluto a Marzia e Gigi.
Bravo, a tratti commovente. Ciao, Oriella
Bravissimo..sei un narratore super...sarebbe che tu lo inviassi a D. CELESTINO...
Valeria Lot Buttazzi...viaggio Portogallo..salutami Marzia