ASPETTAVO MIO PADRE
- Luigi Perissinotto
- May 23, 2024
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Updated: May 29, 2024
23 Maggio 2024
Aspettavo mio padre alla sera. Tutte le sere. Sentivo lontano, fin dall'inizio della stradina quando ancora il profilo non si scorgeva, il rumore sommesso del suo ciclomotore, il mitico strambo e dinoccolato" Lambrettino Innocenti.

In quei momenti ero pervaso da una intensa e piacevole eccitazione che si accompagnava ad una lieve, quasi gradevole, preoccupazione per una vaga comprensibile, ma ingiustificata ansia.
I piccoli compiti che papà mi aveva dato li avevo eseguiti tutti con diligenza. Almeno mi pareva. Il bancone di lavoro era stato riordinato e gli attrezzi di falegnameria disposti con cura come lui mi aveva insegnato. Gli scalpelli dal più piccolo al più grande, le tenaglie assieme alle pinze e le punte del trapano ben allineate. E così via, con la serie dei martelli, le pialle ed i segacci. I trucioli raccolti in un bidone e conservati per accendere il fuoco.

Nel piccolo laboratorio stavo bene. Mi piaceva l'odore della colla e delle vernici e del legno. In particolare, mi piaceva il profumo che emanava il legno giovane di acero campestre o di acacia, ma anche quello intenso e armonioso del noce antico. Osservavo alla fine, con attenzione, quasi con affetto, uno per uno tutti gli attrezzi ed ognuno era l'artefice di un particolare lavoro manuale. Un intaglio prezioso, una minuta costruzione o una veloce riparazione. La piccola lima, ad esempio, era stata utilizzata per rifinire una minuscola lanterna in ottone, lo scalpello con la lama sottile per intagliare la polena del brigantino e la sgorbia per le decorazioni del cassero di poppa.
Ogni particolare di un solenne vascello o di un umile "burcio", ogni intaglio di un esotico Sciabecco erano il risultato di un minuzioso lavoro, di piccole invenzioni frutto dei grandi sogni di un falegname speciale.




Alla fine, quando il piccolo laboratorio mi sembrava in ordine, lieto di aver concluso questo delicato compito mi dedicavo all'orto. Ed ero ancor più felice perché l'orto era il mio punto forte e la mia fonte di orgoglio.
I lavori da fare erano tanti, spesso faticosi e differenti in base alla stagione. In primavera era necessario dissodare, concimare e preparare le aiuole per la semina e per le piantine; dopo poche settimane eravamo alle prese con i tutori, canne palustri e ramaglie, per le piante in crescita, per i pomodori e per i piselli. Passata l'estate era il tempo degli ortaggi per l'inverno, cavoli, porri e finocchi e a fine ottobre nella costruzione di provvisori ricoveri, sbilenche capanne di legno e tela, contro il freddo e contro la brina per ciò che restava.
Erano però due i compiti che più mi impegnavano. Uno faticoso e ripetitivo, l'altro motivo di profonda soddisfazione e di un particolare orgoglio, da esprimere pacatamente e sottovoce, ai tenaci e fieri coltivatori del vicinato.
All'epoca in quasi tutte le case vi era, recintato e presidiato, un piccolo pezzo di terra da zappare e le disfide per l'orto più bello erano faccenda seria, delicata ed in qualche modo avvincente. Le tacite “battaglie”, amichevoli, inesorabili e senza premio, avevano regole non scritte imperniate su diversi e talvolta bizzarri parametri di valutazione: quantità e calibro dei pomodori, colore delle melanzane, peso delle cipolle e lunghezza delle carote, e non sempre la vittoria era scontata.
Mio padre, andava controcorrente e oltre ai consueti e “scontati” termini di paragone attribuiva particolare attenzione alla nettezza, anche esteriore, delle aiuole (in dialetto "culiere"), alla simmetria delle medesime e alla gradevolezza dell’insieme. Il nostro, più che un orto, pareva un giardino ed il mio principale incarico per renderlo tale era l'estirpo delle erbacce infestanti e la pulizia delle stradine di accesso.
Era un lavoro che non mi piaceva, duro e scomodo, in particolare quando l'erba si mischiava, piccola e serrata, alle insalate e al prezzemolo oppure quando la gramigna, profonda e tenace, soffocava cipolle e fagiolini. Al termine di queste pesanti incombenze era però gradevole percepire un senso di appagamento e pregustare la piacevolezza del momento in cui avrei ricevuto i complimenti da parte di papà.

Diversamente alle odiate erbacce un particolare incarico mi era invece assai gradito. Si trattava della realizzazione della nostra "arma segreta" contro le incursioni del famelico grillotalpa (in dialetto "sbusa arzari" e per noi del Basso Piave "can da aqua"). Una bestiaccia a quei tempi “mitologica”, oggetto di interminabili diatribe sul sistema più efficace per lo sterminio. C’era chi puntava su veleni spaventosi dai nomi terrificanti, cianuro, arsenico e via dicendo. Veleni letali per l’uomo, ma citati solamente per incutere rispetto e per dare forma ad un mito (il grillo talpa) che sembrava e doveva essere immortale. Ovviamente erano sostanze del tutto inutilizzabili per questo tipo di lotta ad un semplice insetto, sebbene di ben 5 centimetri. Altri passavano notti insonni e si appostavano negli orti muniti di vanghe con lo scopo di intercettare un “Attila” parassita mentre scavava le proprie gallerie sotterranee.
La nostra "arma", il nostro espediente non era altro che una piccola modifica ad un procedimento già in uso e all'epoca “involontariamente” rispettoso della conservazione biologica.
Il metodo "classico" consisteva nel posizionare dei barattolini vuoti lungo il percorso (abitudinario) del vorace insetto in modo tale da farlo cadere dentro senza possibilità di fuga. La nostra intuizione (credo nostra, ma potrebbe essere stata anche di altri) prevedeva un piccolo, ma sostanziale miglioramento.
Ancora una volta, come in un mio precedente episodio (Carburo), devo menzionare il leggendario barattolo dell'olio Topazio. Quello più piccolo, da litro.
La lattina, sempre quella di colore azzurro, veniva privata dei due coperchietti e successivamente divisa trasversalmente, in due parti o tronconi di uguale misura. Praticamente due mezze maniche o due sezioni di cilindro.


Il mio compito iniziava con il recupero di un congruo numero di questi barattoli dalla discarica pubblica, ad eseguire le varie troncature e procedere al loro posizionamento nell'orto. Era questo il momento cruciale e nello stesso tempo il più delicato. Una fase in cui la tempistica, la precisione e la manualità erano elementi essenziali per ottenere un pieno successo.
Il mezzo cilindro veniva conficcato nel terreno soffice, come una ciambella, a protezione della piccola piantina di pomodoro collocata al centro. Il "nostro" grillotalpa, avido e forzuto, alla ricerca delle tenere radici della piantina, metodico e testardo come solo un grillotalpa può esserlo, sempre con le medesime coordinate in testa: a) galleria superficiale; b) profondità massima centimetri due; c) direzione di scavo casuale e senza capacità di "problem solving" veniva costretto a cozzare il capo contro il lamierino del barattolo e deviare verso altre fonti di nutrimento, ugualmente protette, fino alla disperazione ed al cambio (ho sempre immaginato questa opzione) di dieta.
Risultato: le nostre piantine, diversamente da quelle del vicinato, non rinsecchivano e turgide e rigogliose come tralci di vite primaverili iniziavano ben presto a fiorire e produrre frutti (bacche) rossi e polposi.
Dopo un paio di anni il segreto non era più tale e i pomodori di via Argine divennero famosi in tutto il borgo, così come il "metodo Topazio".
Altri piccoli lavori facevano parte della mia quotidianità e di quella di mio fratello. Per noi era normale e soprattutto piacevole aiutare nostro padre e le sue ricompense erano sempre originali ed imprevedibili: un piccolo gioco con un pezzo di legno, una barchetta con il guscio di una noce, un trenino di barattoli, una gara di bella scrittura, un giornalino di seconda mano. Ogni sera una sorpresa o una semplice inattesa e spontanea invenzione.
Anche per questo aspettavo mio padre alla sera, e quando il Lambrettino bianco oltrepassava il cancelletto di casa andavo di corsa verso di lui. Papà mi guardava, guardava l'orto e con i suoi occhi chiari e buoni mi sorrideva. E non servivano parole.

Perché noi, monelli di Via Argine, non tutti, ma in gran parte, eravamo alla fin fine dei bravi ragazzi. La strada, talvolta violenta, era solo il nostro “caos” temporaneo ed accettabile, in attesa del conforto famigliare.
(segue Pan e vin)
Zio Aldo, uomo mite e sensibile.Bello e commovente questo ricordo .Bravo Gigi!!! Liana
Bei ricordi bel racconto Gigi.
Ciao Gigi!
Bellissimi ricordi, bellissime parole, forti emozioni!
Grazie Gigi, ti voglio benebene
Antonella ❤
Complimenti Gigi, bellissimo racconto. Un applauso anche a zio Aldo per i meravigliosi modellini di barche. Ho un ricordo di un padre attento e affettuoso come traspare anche da quello che scrivi. Ciaoo,
Oriella
Ancora bravo Gigi...
Qui non solo accurate e minuziose descrizioni delle cose ma hai fatto entrare i SENTIMENTI .
Hai ancora una volta ben reso l'atmosfera del tempo che per chi ha la nostra età facilmente ritrova tante similitudini.
Grazie ancora per la bella e piacevole lettura di una vera storia di vita....
Alla prossima
Ma va svelto perché i testi per il Pulitzer vanno mandato 1 anno prima! 😁👍
Cari saluti
Fabio Bozzy Bozzao