GUERRA E PACE
- Luigi Perissinotto
- Feb 12, 2024
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Updated: Feb 13, 2024
12 Febbraio 2024
C'erano le guerre. Sporadiche, periodiche, accidentali e pianificate, istantanee e prolungate, tra di noi e con gli altri. Gli altri erano soprattutto i famigerati "Kamemoti" (i rivali di via Cà Memo), ma anche quelli di via Lampol e raramente quelli di via Romanziol.
Spesso si andava a combattere all'estero o l'estero veniva da noi. Erano le battaglie più strane, meno cruente delle guerre interne, ma davano alla nostra compagine grande prestigio.
Le orde barbare giungevano dall'oltre Piave, dalla riva opposta con piccoli barchini oppure, quando era possibile, balzando da burcio a burcio da una sponda all'altra.
I Fossaltini, i nostri nemici di oltreconfine, erano per noi, solamente stravaganti avventurieri. Più grandi di noi, probabilmente più forti di noi, senz'altro meno numerosi, ma soprattutto meno cattivi e male armati. Non abbiamo mai capito per quale motivo ogni tanto passavano la frontiera per essere sconfitti. Devo anche dire che quelli della destra Piave facevano un po' paura mentre attraversavano il fiume, ma messo piede a terra, nel territorio "nazionale" erano già "morti".
Le nostre fionde non perdonavano, erano perfette, infallibili e costruite con la massima perizia, con materiali di qualità, con esperienze tramandate di padre in figlio e provviste di proiettili attentamente selezionati.
Il legno, quando era possibile, era di giovane bosso con curvatura naturale di 180 gradi a forma di U, prelevato in autunno con luna calante dalle migliori siepi del paese. Il bosso selvatico non era così adatto come quello marginalmente sfruttato dall'uomo. Gli elastici venivano accuratamente tagliati su misura ed in base alle capacità del fromboliere. Lunghezza adeguata alla estensione dell'avambraccio del soldato ed alla sua massima forza teorica. Larghezza della striscia elastica ugualmente vincolata più o meno ai medesimi parametri.
Il caucciù proveniva dalle camere d'aria bucate delle biciclette, possibilmente quelle di colore rossastro, molto più tenere ed estensibili di quelle di colore nero. I fornitori volontari o meno (“meno” significa depredati) erano le due officine meccaniche di riparazione biciclette e motorini del paese.
Ultimo particolare molto importante della fionda (in dialetto forcassea per la forma a forca) era la piccola sacca (in dialetto curamea da curame ovvero cuoio) dove veniva alloggiato il proiettile. Anche questo dispositivo doveva avere dei requisiti e delle qualità molto precise. Il non plus ultra era la linguetta anteriore in pelle naturale di una scarpa da uomo molto usata, possibilmente di colore marrone (più che altro per la maggiore disponibilità), con l'interno pelle, quello leggermente poroso, rivolto verso l'esterno dove veniva posizionata la pallottola. Quest'ultimo, il proiettile, non era difficile da reperire avevamo, giù al porto, montagne di sassi e ciottoli grandi e piccoli a disposizione. La cernita era discrezionalità del coscritto. C'era chi prediligeva un certo calibro chi una forma irregolare altri ancora, come lo scrivente, un sasso perfettamente arrotondato liscio e non più grande di una nocciola.
Inutile spiegare i motivi di tanta perizia. Non per nulla i Fossaltini venivano sconfitti!

Ben più complicata e ardua era la battaglia contro i vicinanti. Uno scontro tra titani spesso cruento, feroce e sanguinoso. Contro i "Kamemoti" venivamo messe in campo tutte le nostre risorse, tutte le nostre "competenze" ma in primo luogo tutta la nostra malvagità.
Con noi c’erano anche alcune ragazzine, non crudeli come i maschi, ma ugualmente determinate ed indispensabili all’economia di guerra. Avevano il compito, non facile, di procurare in casa oggetti strategici: i fiammiferi per il fuoco, le scarpe vecchie per le fionde, candele per le ronde notturne e le banane per il capo. Frutto raro e ambito, ovviamente non reperibile in natura e difficile da rubare. Le nostre ragazze, poche e coraggiose, per nulla discriminate godevano anche di una considerazione supplettiva in quanto, vicine di casa del capo, conoscevano in anticipo i suoi umori e, dettaglio non da poco, facevano la pipì in piedi come veri soldati.
La battaglia vera e propria era spesso preceduta da una serie di atti ed accadimenti nello stesso tempo provocatori e intimidatori. Lo sgarbo, l'attacco verbale e quello gestuale erano all'ordine del giorno. Una sorta di accerchiamento psicologico diremmo oggi.
Passare poi da queste fugaci offese a quelle cruente, fisiche ed efferate era quasi indispensabile.
Una di queste guerre venne innescata nientemeno che tra le mura di casa. Coinvolse grandi e piccini ed in particolar modo alcune persone di norma mansuete e comprensive.
Tutto ebbe inizio con un trascurabile oltraggio tra bande, un fischio, una parolaccia una mezza pedata. Sembrava tutto rientrare nella norma, ma un "kamemoto", un energumeno notoriamente violento, nel pomeriggio di una afosa domenica, mentre mio padre riposava nella penombra della sua camera, come furia selvaggia volle trovar vendetta. Una delirante, sanguinaria ed epica vendetta.
Il tizio, più grande di noi, cercava proprio me. Il motivo era semplice e sciaguratamente logico: i più forti, i bulli, cercano sempre i più deboli. Ed io evidentemente lo ero.
Ho chiara, vivida e soprattutto risonante di grida e insulti l'intera scena, come un film con Bruce Willis in canottiera bianca sbrindellata: lo scavalcamento in un sol balzo del cancello, la breve corsa lungo il vialetto e l'arrampicata, altrettanto funambolica, da una finestra di casa all'altra, le grida di aiuto di mia madre, il caos in camera da letto, i colpi sordi sulle assi del pavimento, le percosse feroci ai fianchi di papà e l'altrettanto furente palesarsi del vicino di casa in provvido soccorso.
Costui, un noto negoziante del paese, con un atletismo inatteso scavalca la rete metallica dell'orto, sale le ripide scale quasi senza toccare i gradini si avventa sull'energumeno e lo riempie di pugni e botte a casaccio. E di una serie di osceni improperi che ancora mi risuonano nella testa.
Quando il sangue inizia ad uscire dalle narici e un occhio è già blu il nostro prode solleva il malconcio "kamemoto" sulle spalle e lo lancia dalla finestra sul fortuito e salvifico terrazzino posto sopra la porta d'ingresso.
Scendiamo tutti in cortile pronti a soccorrere o malmenare il precipitato, ma lo sciagurato è già fuggito e dalla strada lancia verso di noi tremende e sguaiate invettive.
Poi venne dichiarata guerra. Noi contro di loro. Noi con le nostre armi, loro con la loro forza numerica e muscolare. Loro alti e roboanti noi microscopici come miseri tacchini pigolanti (in dialetto "pitoneti", uno dei nostri nomignoli).

Le armi erano la nostra unica vera risorsa. Le immancabili fionde, le lance incendiarie, le mazze ricavate dalle radici (fittoni) delle canne palustri, le stesse mazze che usavamo per giocare ad hockey in strada, e l'arma segreta e terribile, usata solo e fortunatamente come deterrente: la balestra a dardi d'acciaio.
Mio fratello era l'abile e unico costruttore di quest'arma. Un affusto ed una impugnatura in solido legno squadrato, l'arco con due ferri di un ombrello accostati, teso grazie ad una corda intrecciata e bloccata da un gancio mobile e il micidiale raggio di una bici, in acciaio traslucido, che usciva forzatamente da un pertugio centrale tra i ferri dell'ombrello.
Un attrezzo letale che ha causato numerose ferite durante i collaudi e le esercitazioni, ma che fortunatamente non abbiamo mai usato in battaglia.
Questa guerra, come d'altronde quasi tutte le altre, si svolgeva sopra l'argine della Piave o nella grava tra le strutture del cantiere e le rive del fiume. Il nostro fortino era il frantoio e la nostra "armatura", uno scudo con il fondo, in leggerissima latta, del solito barattolo di olio Topazio da cinque litri.
Il mio testone non rientrava nella circonferenza dello scudo ed immancabilmente i colpi e le sassate degli avversari mi arrivavano in fronte.
Abbandonavo quasi subito, sia per le botte ricevute a causa della inutile protezione dello scudo sia per uno disgraziato posizionamento in prima linea, ma soprattutto per la fifa di dover intraprendere il confronto a lotta libera. Gli altri continuavano, spesso in ritirata, altre volte in temporanea tregua per un tacito accordo tra i capi. La guerra poteva riprendere il giorno dopo o essere rinviata.
La guerra era, assieme a poche altre divagazioni, il filo conduttore, il destino e la ragione di esistenza della banda.
In ogni caso e differentemente dal titolo di questo racconto, la pace non era contemplata e mai perseguita. E mai si palesò.
Segue Radici I (i Brocoi)
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