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PAN E VIN

  • Writer: Luigi Perissinotto
    Luigi Perissinotto
  • Jun 29, 2024
  • 10 min read

Updated: Jul 3, 2024

29 giugno 2024

Raccontare del nostro Pan e Vin è obbligatorio.

Può non essere originale dopo che in molti hanno fantasticato e scritto su questa popolare e folcloristica usanza e quando in molti, ancor oggi, parlano e raccontano cose mirabolanti sui grandi falò dell'Epifania.

Il nostro, quello di via Argine degli anni Settanta era, senza esagerazione, il più alto, il più grosso, il più grande, il più menzionato ed invidiato di tutto il circondario, da Caorle a Ponte di Piave, da San Stino a Quarto d'Altino. E se non fosse stato esattamente così a noi sarebbe piaciuto crederci! In ogni caso era senz'altro famoso ed inviso da quelli di via Cà Memo e da quelli di Fossalta. E tanto ci bastava!


La realizzazione di quella grande catasta di sterpaglie, legna e altri materiali era cosa seria, impegnativa e continuativa. Durava un anno intero e il giorno della Befana, quello vero del 5 gennaio, era solo il momento più appariscente, non certo il più importante.


Racconterò le varie fasi ed i vari "delitti" strada facendo ed a scanso di equivoci premetto subito che, in quegli anni, la sensibilità ed il rispetto per l'ambiente non erano certo le nostre priorità e nemmeno quelle degli amministratori locali. È pur vero che alcuni roghi, in particolare quelli periferici in mezzo alla campagna o nelle aie prossime alle case rurali, erano allestiti con materiali consentiti, naturali e tradizionali. Ma non il nostro, se non in parte e senz'altro in una parte insignificante. Quindi ogni nefandezza era banalmente consentita, non lecita e tanto meno rappresentativa o emblematica. Coreografica talvolta, ma non teatrale. Brutale piuttosto, come può essere scioccamente brutale togliere la sedia da sotto il sedere ad un amico. Niente di più. Una goliardia esercitata da alcuni mocciosi semianalfabeti, che accresceva fama e rispetto, indispensabili al mantenimento di uno status quo conquistato in anni di cruente battaglie.


Niente ci poteva distogliere dal mantenere viva questa usanza dai toni e dalle suggestioni quasi da saga celtica. Fatta di fuochi notturni, canti sguaiati, simboli astrali e simboli virili.

I nostri trascurabili falò della befana avevano (e ancora hanno) mille nomi, come mille sono i luoghi in cui venivano eretti, dal Friuli fino al vicentino e oltre, dallo sloveno "krias" alla padovana "bubarata" passando per il nostro "pan e vin". Erano i fuochi beneauguranti per il nuovo anno, in particolare per i contadini, ed ogni famiglia ed ogni contrada ed ogni paese sapeva trarre dai fumi dalle fiamme e soprattutto dalle faville (fuive) segnali ed auspici per il futuro. Ognuno invocava i propri santi, ovvero altre entità fantastiche e profane o spericolate "divinità", intonava inni canti e tiritere più o meno stravaganti, consumava bevande cibi e dolci tradizionali e riempiva la notte di suoni spari e di altri schiamazzi.


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"Krias" nella zona di confine con la Slovenia

Pensare e costruire il pan e vin era ogni volta rimaneggiare quello del precedente anno, con la ricerca di nuovi processi realizzativi e di nuovi materiali. Era importante analizzare i vecchi errori e le ataviche pecche per mettere in scena uno spettacolo sempre nuovo, sempre appariscente e, possibilmente, insolito e "pauroso".

Bello e pauroso principalmente.

Obiettivo: fiamme alte, istantanee, crepitanti e durature accompagnate da scoppi improvvisi, sibili e rotolamenti infuocati lungo i pendii dell'argine. Per fare tutto questo era necessaria una meticolosa pianificazione. Ed il capo banda, come al solito, non sbagliava una mossa.

 

Il palo di sostegno, colonna vertebrale della pira, era la prima necessità. Doveva essere semplicemente più alto e robusto del precedente.

Lungo le rive del fiume abbondavano alberi di varie misure, ma i più grossi erano stati razziati, negli anni precedenti, per i più disparati impieghi: per le porte del campo di calcio, per la costruzione di capanne e palizzate a difesa dai nemici e, ovviamente, per i vari pan e vin.

Esistevano però due alternative. La prima, la più rocambolesca, consisteva nel depredare i territori nemici, in particolare i boschetti fluviali di Fossalta dove ancora crescevano alte e robuste gaggie. Non era difficile portare a casa questi grandi alberi. Un veloce taglio mattutino o serale, protetti dalla semi oscurità e dalle vedette in avanscoperta, quindi l'accompagnamento del tronco lungo il fiume con un paio di pneumatici, fissati con robusti legacci, fino alla riva opposta. Quindi la stagionatura previa integrale pennellata di catrame a protezione da intemperie, topi e parassiti vari.

La seconda opzione era un compromesso, spesso tacito, con il vicino cantiere edile ed in particolare con il figlio del proprietario, nostro coetaneo e componente saltuario della banda. Trovato l'accordo, senza permessi e senza clamore, veniva nottetempo sottratta, dal deposito del cantiere, la trave più lunga e robusta.


Ulteriore e importante missione era la raccolta di varia sterpaglia utile al mantenimento del fuoco e alla conformazione, anche esteriore, dell'intero falò. Il primo arbusto erbaceo, indispensabile e quasi miracoloso, era quella specie di assenzio selvatico, che noi chiamavano "egoea" e di cui ho brevemente accennato in un mio precedente racconto. La sterpaglia veniva raccolta e stretta in grandi fascine a fine estate quando il vegetale era ormai rinsecchito e il lungo stelo era "croccante" come un grissino. Per questo miracoloso per le nostre necessità. Il luogo di raccolta, tanto per cambiare, erano le aree incolte e degradate della grava della Piave.

L'altro essenziale elemento era la pregiata "canna" o stoppia del granoturco. Anch'essa rinsecchita e quasi annichilita dalle prime nebbie di fine ottobre. Raccoglierne una congrua quantità non era affatto facile. I contadini usavano questo cascame come lettiera (strame) per gli animali nelle stalle e non sempre erano disposti a privarsene per il pan e vin. Quindi, come al solito, nei campi più solitari, lontani dai casolari e nascosti da varie alberature non c'era alternativa se non il consueto saccheggio.


Tutta questa pseudo-fienagione veniva accatastata, in attesa della giornata cruciale, negli orti ed in provvisorie capanne nelle vicinanze del luogo in cui doveva avvenire la nostra rappresentazione.

 


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Per un convenzionale pan e vin questa rozza mietitura poteva essere più che sufficiente, ma non per noi. Noi di via Argine avevamo le nostre componenti aggiuntive, più o meno segrete.

La prima il gasolio. Necessario per un innesco repentino ed efficace anche in presenza di umidità, pioggerellina o nevischio.

Ovviamente la scorta di nafta per il nostro fabbisogno veniva assicurata con il tradizionale sistema del risucchio dai serbatoi degli autocarri della società di trasporti che operava al di là del tunnel (il passaggio che metteva in comunicazione il paese con la grava della Piave). Era un lavoretto facile e veloce con l'unico rischio di ingurgitare un sorso di carburante e soccombere ad una serie di sputacchi e bruciori non del tutto piacevoli.

 

Ulteriore, principale e contradditorio componente del nostro pan e vin era il "copertone". Con questo termine generico veniva classificata una gamma di pneumatici dalle diverse caratteristiche e dimensioni. Quelli più piccoli, di bicicletta o moto, servivano per i fuocherelli perimetrali e per distanziare gli spettatori. I più grandi, quelli di macchina agricola e grossi trattori, erano le fondamenta su cui innalzare il campanile. Ma i più ambiti erano i pneumatici dei camion. Quelli di misura intermedia, più grandi di quelli di automobile e non così ingombranti come quelli di un grosso trattore. Fonte di approvvigionamento? Non lontano dai serbatoi del gasolio. Accanto e sotto di essi.


La razzia di pneumatici di autocarro era un compito difficile da portare a termine, con cautela e durante il corso dell'intero anno. Senza fretta e soprattutto senza arrecare grossi problemi, creare sospetti, incidenti e denunce. Per farlo veniva in nostro soccorso una rete (pochi elementi per la verità) di fiancheggiatori e di provetti "scassinatori" muniti di adeguata attrezzatura.

Erano i più grandi della banda e alcuni amici "riservisti" dalle retrovie. Il copertone, generalmente quello interno della coppia posteriore, veniva individuato durante un sopralluogo notturno e tenuto a memoria per la successiva asportazione. Quest'ultima era l'apice, il non plus ultra di tutta la nostra intraprendenza. Un avvenimento cruciale da non raccontare e da non nominare mai! Un accadimento estraneo, lontano dalla nostra realtà... e sicuramente opera di bande forestiere, forse Kamemoti forse Fossaltini.

 

La quantità minima di copertoni di tali dimensioni era di circa quindici unità che, anche se teoricamente possibile, non era conveniente né opportuno reperire in un unico sito ed in maniera fraudolenta. Veniva in nostro soccorso una semplice e vantaggiosa opportunità che, tra l'altro, aiutava a confondere le acque e depistare eventuali sospetti nei nostri confronti.

 

Ci supportava una semplice e inconsapevole "filosofia" male interpretata “...noli mingere contra ventum...” ovvero (con una certa libertà di interpretazione): combinatele pure di tutti i colori, ma non esagerate mai, evitate di strafare e restate sempre al coperto. Quindi la nostra strategia consisteva nell'infiltrarci tra le compagini a noi gradite, creare un po' di cagnara se non un raggiro vero e proprio e farcele alleate. Il perfido giochino era quello di chiedere, con fare innocente e distaccato, ai responsabili della società proprietaria dei camion i pneumatici inutilizzati, rotti o consunti, e successivamente integrarli e confonderli con quelli da noi furtivamente sottratti.

In questo modo la tattica di depistaggio ha sempre funzionato. Per tutti, il nostro pan e vin era composto esclusivamente da copertoni spontaneamente donati e la colpa dei furti ricadeva implacabile e ineluttabile su ignoti.

 

Quando l'accaparramento dei materiali volgeva al termine arrivava il tempo dell'esposizione e della costruzione. Un paio di giorni prima della data fatidica, se non già nei primissimi giorni del nuovo anno la banda, nel suo completo, iniziava a scalpitare e concertare animosamente sulle cose da fare.

Non importavano le condizioni atmosferiche. Mi ricordo freddi intensi con brinate (brose) memorabili. Con la galaverna (siibria) che rifletteva ovunque un sole di ghiaccio e scricchiolava sotto i piedi; oppure con una leggera coltre di neve che ben presto diventava fango ed ostacolava i piccoli fuochi di ristoro. Nemmeno la pioggia leggera era un grosso problema, un fastidio facilmente superabile posticipando l'allestimento con le fascine di sterpi e canne all'ultimo momento. Forse solo una pioggia torrenziale ci poteva fermare e far procrastinare l'evento, ma non ho memoria di una simile circostanza.


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Brosa del mattino

Il palo veniva conficcato sulla sommità dell'argine in corrispondenza con la porta lato nord del nostro campetto di calcio. Vicinissimo al cantiere, alle prime case, agli orti e, ovviamente, a poche centinaia di metri dal tunnel e dal centro del paese.

A fianco del palo veniva predisposta una precaria impalcatura con una sbilenca e penzolante carrucola posizionata alla stessa altezza del lungo fusto. Serviva per sollevare i pneumatici ed infilarli in una successione di enormi anelli uno sopra l’altro, come in una collana di perle, creando un unico enorme ininterrotto rivestimento di gomma nera. All'interno di questa spirale di copertoni venivano piazzati anche alcuni grossi petardi e mortaretti, si mormorava acquistati o scambiati con i barcaioli provenienti da Chioggia, ma verosimilmente recuperati in loco.

 

La fase conclusiva consisteva nel rivestimento di ciò che inizialmente era solo un tronco di acacia con le fascine di canne e sterpi, queste ultime poste alla base della torre per facilitare le prime fiammate. Veniva infine, posizionato all'apice del palo, come un immobile stendardo, un rozzo manichino con casacca cappellaccio e scopa di saggina. Era l'immancabile "vecia", l'anno vecchio, da bruciare.

 

A lavoro ultimato il nostro pan e vin, dalla vaga forma di cono, misurava circa quindici metri in altezza ed aveva una circonferenza di sei-sette metri alla base. Il lavoro, se non vi erano intoppi (e vi erano) terminava nel tardo pomeriggio con l'accensione di piccoli fuochi scenografici posizionati tutt'attorno alla pira e lungo il declivio dell'argine verso la strada.

Era il momento più bello e la grande eccitazione si manifestava tra urla canti e con le immancabili bombe di carburo (di cui ho già raccontato). E con le scorribande in territori nemici.

L'intento era quello di bruciare anzitempo i falò dei Kamemoti, di quelli di via Lampol e di Fossalta, al di là della Piave.

 

Ovviamente i Kamemoti, notoriamente più grandi di noi di via Argine, e anche quelli di via Lampol erano altrettanto agguerriti ed intenzionati, a loro volta, ad incendiare il nostro di pan e vin. Nonostante le imboscate e le sortite come piccoli indiani Pellerossa lungo l'argine e lungo la grava della Piave, nessuno dei nostri e dei loro pan e vin è mai stato attaccato e distrutto.

Una sola volta, siamo riusciti, noi della banda, ad avvicinarci ed a lanciare alcuni dardi infuocati verso una catasta, indistinta nel buio della sera, al di là della Piave a Fossalta.

Si trattava di un grande cumolo di sterpaia, rovi e legna, probabilmente opera di alcuni adulti dove un piccolo focolaio, da noi furtivamente provocato, aveva cominciato a farsi strada. Dallo spiazzo debolmente illuminato si levarono grida concitate e improperi di varia turpitudine, ma capimmo subito che l’incendio era stato domato. È stata una fortuna, in caso contrario una guerra sarebbe iniziata cruenta, simile a quella con i notori Kamemoti, e davvero non ne avevamo bisogno.

 

Annunciata da potenti botti con il carburo era infine giunta l'ora dell'accensione. La gente usciva di casa avvolta in pesanti coperte, scialli e pastrani, carica di fiaschi di vino, di pinza (obbligatori sette tipi, con sette ingredienti diversi) vin brulé e grappa.

Due taniche di gasolio venivano versate sulle fascine ed il capo, assieme ad un improvvisato fuochista, dava corso all'innesco. Subito le fiamme diventavano lingue altissime, turbinanti e crepitanti. Gli astanti, prima avvolti dall'oscurità, palesavano ora i loro volti infuocati e le coperte iniziavano a volare tutt'attorno.

"El pan e vin a vecia soto el camin!”: un unico grido, una comune invocazione un solo e falsamente “malvagio” desiderio si alzava dalla piccola folla sopra l'argine, sulla strada e nei cortili davanti alle case.


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Le faville andavano verso ponente, altre volte verso levante, ma le tiritere replicate senza sosta dalle persone, sembravano essere sempre le stesse, indipendentemente da dove soffiava il vento.

Quando le fiamme iniziavano a mordere i copertoni quello che era un rogo diventava un incendio, una immane ed infernale torcia di rosse e gialle volute a spaccare il fumoso e denso nero del cielo sopra di noi. Un fuoco prepotente che pareva la bocca eruttante di un vulcano.

Alcuni pneumatici, rimasti senza sostegno, iniziavano a cadere dall'alto e rotolare lungo i pendii dell'argine. Alcuni verso la Piave e da noi sospinti verso l'acqua lungo la corrente per creare ulteriore ed infernale scenario, altri, purtroppo, dalla parte opposta, con una scia di piccoli frammenti incandescenti, verso la strada fin dentro agli orti.

La gente gridava terrorizzata, sebbene questo capitombolare infuocato non fosse certo una novità, altri fuggivano a gambe levate, altri ancora si buttavano, senza remore, sul vino e sulla grappa.

Il caos prendeva il sopravvento mentre il fuoco sembrava non aver mai fine.

 

Quando la notte ed il buio tornavano padroni della scena e la gente era già rientrata nelle case e la gomma dei copertoni creava solo un ammasso informe sul terreno, mentre le fiamme piano piano si placavano, un odore acre avvolgeva il paese e un senso di perdizione calava freddo e silenzioso su tutti i componenti della banda.

 

Noi si rimaneva lì senza parole, quasi spaesati nel constatare che il nostro lavoro era andato letteralmente in fumo ed in così breve tempo. Rimanevamo lì, attorno alle braci "non braci" davanti ad un rimasuglio di peccato originale contro l'ambiente, composto da fili di ferro, pezzi di catrame affumicato, un blob di gomma e un cratere di fuoco rosso e lento.

 

Ma un dubbio ci logorava e non ci consentiva di abbandonare la postazione. I nostri ultimi carboni sarebbero durati sino al mattino e più a lungo degli altri? Più a lungo di quelli dei Kamemoti?


Il pan e vin "di Roberta" ke brusa


(Segue Radici II – I Nanei)

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7 Comments


Guest
Jul 28, 2024

Bella,toccante ed emozionante rievocazione....una tradizione molto sentita da noi❤️ pur con le varie sfumature moderne....Leggerla in una calda sera piovosa di mezza estate mi ha "infiammato" il cuore! Grazie Gigi, anche per la ricchezza della narrazione! Annamaria

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Jun 30, 2024

Bella e dettagliata rievocazione che per noi ragazzi, con rammarico, chiudeva le vacanze natalizie. Ora questo evento, di tradizione contadina, va sempre più diminuendo anche per i vincoli burocratici, e per i materiali "leciti" che si fatica a trovare. Per noi era un evento unico, atteso con ansia, che costava fatica, durava poco e finiva in breve tempo. Anche Fellini in "Amacord" rievoca in maniera magistralmente colorita questa "festa". 😀

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Jun 30, 2024

Bello Gigi!

Anch’io ho assistito ad un paio di pan e vin vis pei campi.

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Jun 29, 2024

Complimenti... Pan e Vin da guinnes dei primati !! Anche noi li facevamo ma leggendo la tua narrazione mi rendo conto che eravamo dei dilettanti... 😁😁😁

Diciamo che ora non sarebbe possibile usare copertoni (denuncia per reato ambientale) per cui impossibile da replicare.

Aspettiamo la prossima avventura...

Ciao

Fabio Bozzy Bozzao

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Jun 29, 2024
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Grazie Fabio amico mio. Sempre graditi i tuoi commenti. Alla prossima. Gigi

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Jun 29, 2024

Bellissima descrizione, usanza emozionante, copertoni bruciati a parte! E con buona pace per le tue lotte con Ca' Memo, Lampol e Fossalta, il pan e vin a casa di Cente resta sempre il migliore nei miei ricordi di infanzia! 😉

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Jun 29, 2024
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Grazie mille...ma dovresti mettere il tuo nome. Non so chi sei, posso solo intuirlo. Gigi

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