top of page

RADICI I^ (I BROCOI)

  • Writer: Luigi Perissinotto
    Luigi Perissinotto
  • Mar 11, 2024
  • 8 min read
11 Marzo 2024

Anche noi, indomiti banditi di Via Argine, avevamo le nostre soffici "culle" tra i rovi. Oasi dove deporre le armi ed ascoltare quella che non sapevamo essere la voce del nostro cuore.

 

Non solo guerre, non solo discarica non solo fionde, in quei luoghi c'era molto di più, di diverso e di consolatorio. Nel mio angolo, al di là dei rovi, oltre le ortiche, c'erano le mie radici.

In quel covo a metà strada tra lo spirito e la carnalità trovavo i miei vecchi, ascoltavo le loro storie, ma soprattutto assorbivo la presenza fisica, corporea, solida ed inamovibile di una parte fondamentale della mia famiglia. Probabilmente la parte più originale della mia discendenza, al limite della stramberia, quella, in gergo locale, dei "Brocoi", dei Broccolo all'anagrafe. I parenti da parte di mamma.

 

Una famiglia per me straordinaria con a capo un magnifico vecchio, rinsecchito, storto, occhialuto e scheletrico, tenebroso ed ironico, silenzioso e ridondante, solenne e banalmente ordinario. Un caos calmo, un punto interrogativo, un enigma per identificare un uomo e un nonno. Girolamo Broccolo, per tutti Momi, il capostipite di una discendenza "stralunata". Me compreso!

Un cartone animato, un quadro naif, un simulacro del neorealismo fuori tempo, una sfinge ed un clown nello stesso tempo. Momi un giullare immobile e silenzioso! Un nonno raccontato solo dai propri figli.

Da mia madre, dalle sue sorelle e dal loro fratello. Un nonno svelato dai suoi quattro bizzarri figli, estrosi e pittoreschi come il loro progenitore.


Momi, figlie e nipoti

Questi quattro "disgraziati" rampolli del nonno hanno sempre fornito quattro diverse versioni sulla provenienza geografica dei Brocoi. Il loro nonno (il mio bisnonno), era un fornaio, a sentire Maria, la mia mamma e arrivò da queste parti dalla Calabria; per Rina, la maggiore delle tre sorelle invece, il bisnonno, giunse in Veneto direttamente dalla Sicilia e per Roma, la sorella di mezzo la più raffinata avendo vissuto in Inghilterra, dalla meno gettonata Puglia. (vi era pure una quarta figlia, Clara, che morì in tenera età).

Molto più "accurata" l'analisi genealogica dello zio Dario, il figlio più piccolo di Momi (un altro figlio, Ferruccio, è morto in gioventù) che, tanto per non smentire e non contrariare le amate sorelle, ha sempre sostenuto la provenienza da un generico "zo", dalla "bassa". Non certo dal Suditalia (una sola parola) perché troppo lontana.

Io, ovviamente per non dispiacere mia madre ho sempre patrocinato la causa Calabria ed in particolare Vibo Valentia da lei proditoriamente assunta come città natale dell'avo errante. Tanto che a Vibo Valentia, parecchi anni fa, ho trascorso un intero pomeriggio, in cimitero, alla ricerca di una lapide con il cognome della mamma. Ricerca senza esito, irrazionale ed assurda, ma a tratti persino emozionante.


Maria, mamma nel 1952

 

Roma, Gina moglie di Dario e Maria

Momi aveva comunque un papà non indigeno e di questa provenienza meridionale abbiamo tutti noi, figli e nipoti, alcuni segni evidenti. Carnagione non certo pallida e capelli generalmente scuri. E carattere oscillante tra il fortemente volubile e il catatonico depresso.

 

Il nonno nacque in Veneto ed ancor giovane sposò una altrettanto giovanissima veneta di nome Regina. La nonna Regina morì a 33 anni dopo aver dato alla luce sei figli. Alla sua morte Momi ereditò un ingente patrimonio che lapidò totalmente in pochi anni.


Girolamo Broccolo detto Momi

Per arrivare alla povertà quasi assoluta procedette in questo modo: consegnò le figlie ad una dama di compagnia (bambinaia) e ad un istruttore factotum, dall'equitazione al fabbisogno domestico.

La zia Rina mi raccontava di quando veniva accompagnata a scuola in calesse ed il conducente le apriva lo sportellino e l’aiutava a scendere mentre lei stava attenta a non sporcare le scarpette bianche.

La mia mamma, più piccolina, aveva invece un vago ricordo di lezioni di equitazione e di canto.

Il nonno acquistò quindi due primitivi autocarri con motore alimentato a legna e li consegnò, senza particolari istruzioni, ad un altrettanto primitivo autista. Acquistò anche una rivendita di generi alimentari con i medesimi "vincoli" gestionali dei camion.

Il terreno, decine e decine di campi coltivati, furono ovviamente lasciati in conduzione ad un affittuario approssimativo. Infine, il nonno cercò di lenire il dolore per la perdita della nonna in giro per l'Europa, in particolare Austria e Germania.


Momi e Maria

È superfluo descrivere in dettaglio le modalità con cui sperperò le copiose risorse, il noto adagio "bella vita, donne e champagne" è più che sufficiente. Quindi, a tasche vuote, tornò in paese e si ritrovò indigente e truffato.

I campi svenduti per finanziare la sua "fuga", la bottega depredata e abbandonata, i camion obsoleti e i figli affamati e una baracca cadente come dimora.

Ciò che non mancava a Girolamo era l'ironia e l'autoironia e con quelle iniziò a fare il Momi che ho conosciuto.

Momi era un nonno anomalo e non sempre comprensibile. C'era e non c'era e se c'era era un ghiribizzo stralunato.

Quando mi vedeva, prendeva dalle sue tasche una manciata di fieno e la porgeva a me dicendo in dialetto "to mare no te da' da magnar, ciapa qua' pora bestia!". E con questo esordio iniziava una giornata particolare.


dopo la "bellavita"

Lui parlava poco e sottovoce, raccontava barzellette in osteria “da Elio” assieme all’amato fratello Toni, ma spargeva rimproveri a casa, andava ogni giorno dal barbiere solo per fare il giullare mentre a casa riusciva a restare seduto immobile e taciturno per ore. Parlava di abbuffate memorabili, ma a casa si nutriva solo di brodo di gallina e un bicchiere di vino bianco. Diceva di rispettare le donne, ma a casa si faceva servire, al pari di un nobile, dalla sorella nubile della nonna, la minuscola zia Eia. Senza guardarla e tanto meno ringraziarla.

Lavorava in "surplace" nel vigneto, come un mimo o come un prestigiatore e faceva attenzione dove posare i piedi per non piegare alcun filo d'erba, cibo per i conigli. La sua giornata sembrava il set di un film e lui era primo attore, mordace ed impenitente o antidivo, introverso ed appartato, nello stesso tempo.

 

Aveva storie da raccontare, ma talmente sottovoce che il battito d'ali di una farfalla le sovrastava. Una di queste era la faccenda delle polmoniti. Il nonno ne andava fiero. Sosteneva di avere il record italiano di polmoniti. Le aveva festeggiate tutte, una per una assieme al suo medico, altrettanto felice, con una risata e un bicchiere di vino rosso. Quaranta “goti de rosso” e un articolo sul Gazzettino.

Era orgoglioso anche del suo Cavalierato di Vittorio Veneto e in camera da letto l'unica frivolezza era la pergamena che lo attestava.

In quella stanza io entravo solo quando lui non c'era. Era una stanza sempre buia con mobili in noce scuro con cimiere e pomoli torniti e tappeti consunti.

Quando Momi morì a 85 anni e a 40 chili di peso, ebbi il coraggio di entrare.

Dalle coperte spuntava solo il suo naso adunco. Lo stesso naso, lo stesso vecchio, le stesse ossa appuntite, lo stesso peso come fosse il primo giorno.

Il nonno Momi fu il mio primo incontro con la morte. Ma non me ne resi conto per quanto fantasmagorico cadavere, il nonno, mi pareva esser sempre stato, anche da vivo.


Momi con il fratello Toni e ...

Momi al bar "da Elio"

Premiazione Cavaliere di Vittorio Veneto

Andato il nonno mi restava la sua progenie. Mamma zie e zio, tutti "sopralerighe".

La zia Rina sempre allegra ed energica, una caciarona che si vantava di aver fatto il bagno nuda al mare a mezzanotte con un gruppo di "anzianotte" ed il suo prete preferito. Era la zia che veniva da noi con le uova, il vino ed il pane che consumava al posto della merenda o al posto del te del pomeriggio prima di autoinvitarsi, a suon di barzellette ed aneddoti vari, sia per pranzo che per cena.

Più riservata era la zia Roma (il nome completo, imposto da Momi, tornando dalla Prima guerra mondiale era Roma Liberata) verso la quale avevo un po' di soggezione perché parlava italiano (noblesse oblige) ed aveva sposato un poliziotto, lo zio Aldo di Benevento, che mi dava del Lei e mi stringeva la mano. Questa zia mi voleva un bene particolare ed era, diversamente dalle sorelle, molto più gentile, quasi raffinata, mi sbaciucchiava con tenerezza e soprattutto non mi strapazzava.

La mia mamma era forse quella che più assomigliava al nonno, non tanto fisicamente, ma il carattere ed il modo di fare asincrono e lunatico erano il calco caratteriale di Momi. Eppoi era spudoratamente "calabrese", carnagione scura, occhi neri come tizzoni e tanti capelli neri, nerissimi, fino ai suoi ultimi giorni. Con tutta la dolcezza di un figlio verso la propria mamma non posso fare a meno di dipingerla come la strega Amelia alle pendici del Vesuvio.

Lo zio Dario era il mio preferito, il mio eroe e il mio narratore di immaginifiche, per me reali ieri come oggi, avventure e strabilianti epopee. Era un uomo, ai miei occhi, colossale, forzuto, indomito e dominatore. Viaggiatore alla conquista di terre sconosciute e pacificatore di popoli selvaggi. O sterminatore dei medesimi popoli. Quello che mi raccontava mi faceva però propendere per la versione "Terminator" alla Schwarzenegger (che all'epoca ovviamente non conoscevo).


Le tre sorelle, Rina, Maria e Roma

A causa delle infelici "strategie finanziarie" del nonno, lo zio Dario, come tanti veneti fu costretto ad emigrare in Argentina e ciò che segue è un condensato dei suoi racconti, teatrali e roboanti, davanti ad un bicchiere di raboso e due fette, grosse due dita, di soppressa.


Il grande Dario

Appena giunto in Argentina lo zio comprò un cavallo. Né grande né grosso, lento e stupido perché costava poco. Decise, assieme al cavallo, di tentare la fortuna attraversando una parte dello sconfinato paese. Per alcuni giorni le cose andarono bene grazie anche ad un incontro, in mezzo alla pampa sconfinata, con un gruppo di "rancheros". Erano due rudi allevatori ma lui, lo zio, era molto più muscoloso e molto più affamato ed i due ne ebbero timore. Presero quindi un toro, lo uccisero e ne fecero un colossale "asado".

Per una settimana mangiarono il toro (diceva impunito il mio eroe), le ossa vennero a malincuore abbandonate, ma lui tenne le corna e le infilò al cappellaccio e ripartì, come un vero vichingo, a bordo della sua nave (il mite, ma stupido cavallo).

Dopo alcuni giorni, ritornò la fame. E non solo di carne di toro. Tralascio gli approfondimenti su questo spinoso, spudorato, inqualificabile ma senz'altro menzognero frangente. Comunque, affamato di "non so che cosa" in sella allo stupido cavallo in prossimità di un pueblo (uso la sua terminologia) venne attorniato da una moltitudine di piccoli peones. Tanto piccoli che passavano sotto la pancia del cavallo (sempre più stupido), tanto rumorosi che decise di farli star zitti. Prese il machete, che lui chiamava scimitarra, e ..."zzin"!  e di nuovo "zzan" ... e partirono le teste di un centinaio di indigeni! Poi smontò da sella e andò, tra le donne, a mangiare.

Passarono ancora alcuni giorni e la fame tornò a tormentare il povero cavaliere. La pampa era sempre più sconfinata ed il cavallo sempre più stupido e la fame sempre più grande.

Decise di mangiarsi il cavallo. Tanto era stupido!

Finito il cavallo e considerato che la fame era uguale in Argentina come in Italia, tornò in Italia.


Dario al centro, in Argentina
In Argentina prima di mangiare il cavallo

Tornato dall'Argentina, consumati tutti i polli di casa come fossero un sol toro, assieme alla moglie, la zia Gina, si spostò in Svizzera.

Un grande e bravo muratore, un ottimo giardiniere e un pregevole ortolano. Tanto valente nell'orto che gli svizzeri, gli abitanti di quel paese vicino a Ginevra, non mancavano di fargli i complimenti e le donne estasiati gridolini.

Ogni sera, da primavera a fine estate, lo zio doveva rispondere con un bel sorriso agli apprezzamenti in lingua francese: "bravo' Monsieur Brocolo'! ".

A metà settembre lo zio Dario ne aveva piene le tasche. Non sradicò le ormai rinsecchite piante di pomodoro, anzi le conservò sotto una promiscua capanna o serra ricoperta con del nailon.

 

Arrivò l'inverno e le strade e il paese e l'orto vennero ricoperti dalla neve. Nottetempo, l'antivigilia di Natale, appese i pomodori più belli e più rossi, acquistati in negozio, alle sue patetiche piantine e distrusse la capanna.

Il 24 dicembre lo zio Dario era sulle prime pagine dei giornali ed intervistato dalla tivù.

Il suo commento a noi divertiti nipoti, alla fine di questa storiella, nonostante la gratitudine verso questo paese, era sempre lo stesso: “il mio cavallo era meno stupido di questi svizzeri”.


(segue Carburo)

Recent Posts

See All

9 Comments


Guest
Mar 15, 2024

Good evening Gigi ! Racconto emozionante e coinvolgente! Hai uno stile unico. ...grazie e complimenti per lo spaccato storico familiare noventano e non solo! Ciao Annamaria

Like

Guest
Mar 13, 2024

So già che qualcuno lassù starà ridendo leggendo questa magnifica storia, che neppure io conoscevo... grazie Nicole ♥️

Like

Guest
Mar 12, 2024

Complimenti !!!!!!. I Brocoi non devono essere dimenticati. Ciao

Like
Guest
Mar 13, 2024
Replying to

Ciao e grazie... ma meglio mettere un nome per sapere chi sei. Gigi

Like

Guest
Mar 12, 2024

Grande gigi... meno male che sei andato in pensione e ti dedichi a qs blog... Sei uno scrittore mancato. Un abbraccio grande grande. Barbara 😍

Like
Luigi Perissinotto
Luigi Perissinotto
Mar 13, 2024
Replying to

Grazie Barbara... pensione a parte

Like

Guest
Mar 12, 2024

Belle storie che emozionano.

Qui Gigi ti sei superato. Non solo cronaca ma anche sentimenti ed emozioni forti.

Un bel ricordo familiare ma anche di un Italia che non c'è più da lasciare ai posteri.

Grazie e alla prossima...

Fabio Il Bozzy

Like

©2023 by Viaggi Senza Parole. Proudly created with Wix.com

bottom of page