VIAGGI DELLA MEMORIA - VIA ARGINE
- Luigi Perissinotto
- Jan 13, 2024
- 4 min read
Updated: Jan 30, 2024
13 Gennaio 2024
Non tutti i viaggi iniziano con lo zaino pieno, con le scarpe grosse e con sentieri tracciati in rosso sulla mappa, i viaggi che scriverò in questa "stanza" della memoria saranno senza tempo, senza prova e pieni di caligine e di lievissimi ricordi.
Premessa
Un giorno racconterò, sempre in questa forma confidenziale e se l'ispirazione mi aiuterà, delle mie grandi e insignificanti avventure. Non solo di viaggio. Racconterò delle mie guerre giovanili talmente cruente da fare impallidire i Ragazzi della Via Pal. Scriverò delle mie giornate passate a sradicare erbe infestanti dall'orto di casa che, in confronto, le giornate in cava di Mauro Corona sembreranno leggere come l'aria fresca dei suoi boschi. Dei cibi di casa e di altre amenità. Parlerò di salite in bicicletta, di ragazzi e ragazze di un paese anonimo, ma anche di muli e di bombe e di mille altre cose talmente insignificanti che nemmeno Hemingway avrebbe trovato ispirazione.
Preambolo
Ho scritto di queste cose per molti anni, ho scritto e stracciato innumerevoli pagine, ho riscritto per mio esclusivo diletto, ho chiesto ai miei figli un parere e ho deciso, infine, che tutto questo poteva aiutarmi. Quindi ho rimosso molte cose e ne ho smussate molte altre. Qualcosa è rimasto.
VIA ARGINE
Il ciabattaio, lungo la via verso il Piave, segnava l'angolo di svolta. Oltre era il nostro territorio. Via Argine, Via Silvio Trentin, persino per molti, confondendo, Via dell'Argine, Via Borgo o Via Lampol. Comunque, per tanti, solo e giustamente via Argine. Una terra a parte.

Noi eravamo i ragazzi di via Argine, ma i nomignoli con cui eravamo noti erano assai più coloriti, simbolici e rappresentativi. Magari parlerò di questo in altre occasioni.
Tutti conoscono le vicende dei Ragazzi della Via Pal, il libro di Molnar e i vari film a raccontare le loro avventure; ebbene noi di via Argine eravamo molto più feroci. Molto meno leali. E basterebbe questo per caratterizzare le vicende che inizio a raccontare, che non chiamerei avventure, ma spietata quotidianità.
La via in cui esercitavamo il nostro potere sgangherato, a prima vista, non era e non lo è tutt'oggi, insolita, importante o diversa da molte altre stradine del paese. Dal calzolaio in poi, per poche centinaia di metri, incuneata su ambo i lati in un breve fronte ininterrotto di abitazioni, alcuni depositi un paio di rimesse e svariate baracche. Quasi a metà incrociava un piccolo e lurido sentiero che segnava, sul retro delle case ai margini dell'argine, un passaggio quasi sconosciuto, poi entrava in un caotico cantiere edile con alcuni separati e distinti fabbricati, una falegnameria ed un marmista.
Dopo il marmista, oltre i suoi detriti e le nubi di polvere biancastra, le abitazioni e gli orti si affiancavano lungo la parte sinistra della strada mantenendo sgombra la visuale sul ripido declivio dell'argine a destra.
La mia casa era poco oltre metà via. Davanti gli orti, dietro, cinque famiglie una accanto all’altra senza interruzioni senza varchi, poche stanze due cessi esterni per tutti, pollai, disordine e varia umanità.
Era una casa in mattoni rossastri a vista, lunga stretta bassa e vecchia. Le imposte e gli scuri in legno lasciavano passare la luce, la pioggia e tutti i rumori ed i pianti, le grida e gli umori della borgata. Quattro stanze, due al piano terra con il pavimento in mattoni, due sopra con un paio di grandi letti sopra un consunto tavolato, collegate da una ripida e stretta scala in legno. Ovviamente il cesso stava fuori, dietro casa, puzzolente, in uso promiscuo con altre due famiglie. In estate un pergolato di uva americana era il nostro refrigerio, in inverno una stufa a carbone, marrone marca Argo, con un lungo tubo per i fumi ugualmente marrone il nostro fuoco intenso e durevole. L'acqua potabile veniva attinta e trasportata in secchi da un pozzo in prossimità dello sbocco con via Cà Memo, per tutti gli altri usi solo acqua prelevata direttamente dalla Piave.
Una casa, un rifugio, talvolta persino un consolante nido da dividere tra sei persone, spesso sette. I genitori, mio fratello Roberto e mia sorella Lorella, la nonna paterna e la zia, sorella della nonna. Una cagna di nome Zora, un paio di pessime oche bianche, alcuni petulanti tacchini, molti conigli.
La stradaccia, per un breve tratto malamente asfaltata, continuava tra sassi e buche, come il greto di un torrente prosciugato, in corrispondenza del vecchio Mulino. Passato il retrovarco del mulino vi erano poche case isolate, altri orti, la villa del medico di paese, un piccolo bosco di acacie, arbusti di sambuco e rovi spinosi.
Via Argine, ottocento metri di caos, confluiva infine nella ben più importante via Cà Memo. Una punta estrema e lontana dalla nostra sorveglianza, terra di nessuno dove terminava anche il nostro dominio vandalico.
C'era un capo e c'era una rigida gerarchia. Io ero l'ultimo dei soldati. Le nostre terre di conquista erano ampie e limitate, selvagge ed evolute, ricche e povere, presidiate e sguarnite, ma erano incontrovertibilmente nostre! Non c'era spazio per nessun altro se non autorizzato, controllato e spesso soggiogato. Io ero il primo dei soggiogati! Un vero soldato non poteva essere alto, dinoccolato, impacciato e lento. Soprattutto non poteva essere magnanimo. A sette anni ho dovuto ricevere le prime "istruzioni all'uso". Direttamente dal capo, un paio di anni più grande del sottomesso, direttamente sulla mia pelle. Lo strumento di sottomissione erano le gocce di plastica fusa grondanti da un bastone con infilate alcune bottiglie di varechina. Una torcia primitiva, ma efficace ed atroce. Ho pianto e solo a sera ho ricevuto conforto e protezione e solo da mio padre.
I piccoli vandali di via Argine a sera diventavano esseri umani, acerbi giovincelli come tanti. Ma non tutti. Alcune famiglie, la mia indubbiamente, erano un luogo di inclusione e di insegnamento, molte altre un piccolo serraglio nella giungla, armato e contornato di spine. Oltrepassato il confine degli orti ritornavamo nella strada, tutti più o meno, barbari. E come tali ci comportavano.
La strada era, talvolta, anche un pacifico campo di gioco. Calcio ovviamente, ma soprattutto nascondino tra le baracche del cantiere edile, sfide al gioco della "pendola" (lippa), caccia ai pipistrelli, lucertole e pantegane. Al di là della strada, oltre l'argine, il campo di battaglia prediletto era il greto, la grava del fiume, il cantiere fluviale, il fiume stesso. E, al limitare del fiume, l'immonda discarica dei rifiuti del paese. (segue "VIM")
🤩🤩🤩
Anna
I geni non mentono! Che personaggi pieni di vita! 🤣
Anna 😘
Incantevole!!! Bravo Gigi, ho sempre pensato che dovevi scrivere, ...ricordi e tanto altro!!! Grazie .Annamaria.
Che bravo!☺️
Bravo Gigi...
Ciao
F. BOZZY